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Recensioni di libri

Perché scrivere? Saggi, conversazioni e altri scritti 1960-2013 di Philip Roth

Einaudi, 2018 - I saggi di Philip Roth su altri scrittori e molte interviste fatte a Roth stesso, che molti ritengono essere tra i migliori scrittori americani del Novecento e oltre (tradotto da Norman Gobetti).

Vincenzo Mazzaccaro
Vincenzo Mazzaccaro Pubblicato il 05-10-2022
Perché scrivere? Saggi, conversazioni e altri scritti 1960-2013

Perché scrivere? Saggi, conversazioni e altri scritti 1960-2013

  • Autore: Joseph Roth
  • Categoria: Narrativa Straniera
  • Casa editrice: Einaudi
  • Anno di pubblicazione: 2018

Durante gli ultimi anni di vita di Roth, quando aveva anche smesso di scrivere o sarebbe più corretto dire che non pubblicava più nuovi romanzi, i giornalisti gli hanno tolto il sonno e la capacità di contemplazione, ricordando ogni anno che lui sarebbe stato il prossimo scrittore a vincere il premio Nobel. Un tormento, perché nel corso degli anni il Nobel veniva addirittura dato a scrittori e scrittrici che erano suoi devoti lettori, come l’americana Alice Munro e lo stesso Bob Dylan, entrambi fan dei romanzi di Philip Roth.

Einaudi pubblica nel 2018 Perché scrivere? Saggi, conversazioni e altri scritti 1960-2013 (tradotto da Norman Gobetti), che racchiude i saggi di Philip Roth su altri scrittori e molte interviste fatte a Roth stesso.
Nelle ultime interviste presenti nel volume, Roth scherza coi titoli dei suoi libri, soprattutto il quarto libro scritto, Lamento di Portnoy, dicendo che se si fosse intitolato L’orgasmo sotto il capitalismo rapace, allora si sarebbe guadagnato i favori dell’Accademia svedese.
Per essere più precisi, si metteva a giocare col giornalista di turno su quale scrittore meritasse il Nobel e ci viene un magone così se uno pensa alla lucidità di uno scrittore anziano che riempie due pagine di libro coi nomi papabili, segno che Roth ha sempre letto moltissimo, fino alla fine, non solo i nomi di grandi scrittori europei, ma tantissimi statunitensi, che magari abitavano a pochi chilometri dalla sua residenza e con cui andava a cena.

Anche Roth ha intervistato, ma solo scrittori ebrei, nati in Israele o già anziani che erano sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti; aveva una profonda ammirazione per il nostro Primo Levi e rimase di sale quando seppe che si fosse suicidato, ma non scioccato, come se lo sapesse che dietro la buona educazione di Levi, le sue risposte precise a volte venate di ironia, nascondeva un deserto, un buco nero incolmabile.

Tra gli scrittori che a Roth piacevano molto c’era Milan Kundera e l’intervista è bizzarra perché l’americano si libera e racconta l’ammirazione che porta verso certi romanzi di Kundera, non tutti, mentre il cecoslovacco o meglio ceco, nato a Brno, ma ormai francese, non dice niente di particolare sui libri di Roth.

La prima parte di questo poderoso volume inizia con un saggio molto bello sul vero amore di Roth, dal titolo Guardando Kafka. Prosegue con i nuovi stereotipi ebraici, la letteratura americana e la prima tranche di interviste a cui risponde per il successo del suo quarto libro, il già citato Lamento di Portnoy. Roth dichiara senza problemi che il successo di questo libro è stato il viatico per continuare a scrivere in modo quotidiano, tanto che lo scrittore è stato uno dei pochi benestanti che traeva il suo reddito dallo scrivere, mentre è Roth stesso a dire che ora negli Stati Uniti sono pochi quelli che sono ricchi per i libri scritti, fatta eccezione per Stephen King che guadagna moltissimo. La condizione di Primo Levi lo lascia perplesso: tornato da Auschwitz, riprende il suo lavoro di chimico e di scrittore, ma vive in un condominio borghese senza quadri di pittori famosi alle pareti, o molto poco. Roth si rende conto che la villa Malaparte a Capri è un’eccezione, come gli scrittori Moravia, Morante e Pasolini, che vivevano del loro lavoro di scrittura e Pasolini anche di regista. Nel nuovo millennio, scrivere dà pochissimi introiti se non diventi un fenomeno di costume, in Italia ma quasi in tutta Europa. Forse gli inglesi danno ancora anticipi sostanziosi, ma ai soliti nomi, McEwan e Amis o alla milionaria Rowling per Harry Potter (non c’è desiderio di completezza, dove milionarie sembrano essere alcune scrittrici americane e non solo).

Philip Roth ammette candidamente che il Lamento di Portnoy ebbe un grande successo e le copie andarono a ruba, perché si pensava a un libro che parlasse di sesso e di autoerotismo, non certo per le sue qualità letterarie e in tutta la vita lui ha dovuto combattere contro questo stereotipo, anche in libri che parlano di morte o di legami familiari. Non c’è stato verso e lo scrittore replica che questo equivoco ha sicuramente influenzato sul Nobel. Poi per noi italiani e europei Lamento di Portnoy è il suo primo libro tradotto, tanto da non sapere il titolo dei primi tre libri dello scrittore.
Il problema di una parte del Novecento e del nuovo Millennio è che il romanzo versa in condizioni gravi o va bene solo quando è letteratura di
genere, giallo, noir, hard boiled, legal thriller. Roth prende l’esempio del principe dei recensori, Christopher Lehmann-Haupt, che ha scritto per una vita sul New York Times e ha ogni decennio cambiato la visuale agli scrittori. Secondo il racconto di Roth, Lehmann-Haupt prima voleva che gli scrittori si mettessero a nudo senza fare giochetti, evitando di sublimare; poi dieci anni dopo, ha cambiato tutto ed era per l’artificio, il travestimento, il montaggio, l’ironia complicata.
Questo cambio di casacca e l’aver parlato male di un libro di Grace Paley, che lo scrittore amava, lo fece arrabbiare e scrisse:

"Tenersi aggiornati nel corso degli anni sui pensieri di Lehmann-Haupt è un buon modo per cogliere quale sia in un dato clima culturale il trito dogma letterario capace di rendere importante la narrativa agli occhi di lettori privi di comprendonio come lui."

Ci manca molto Philip Roth.

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© Riproduzione riservata SoloLibri.net

Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Perché scrivere? Saggi, conversazioni e altri scritti 1960-2013

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