La strega e il capitano
- Autore: Leonardo Sciascia
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Adelphi
È una narrazione ignorata dalla storia ufficiale, concisa e talmente viva da farsi protesta civile. Potremmo dirla un’operetta morale La strega e il capitano di Leonardo Sciascia, pensata in occasione del centenario della nascita di Manzoni e pubblicata nel 1986 da Bompiani dopo essere apparsa a puntate sul “Corriere della Sera”. Nella ristampa curata da Adelphi il risvolto di copertina indica la chiave di lettura. In apparenza è uno dei tanti casi di stregoneria ricordato da Manzoni nel XXXI capitolo dei Promessi sposi. E Manzoni rimanda, in nota, alla Storia di Milano del conte Pietro Verri, pubblicata nel 1825.
E ci sarebbe in merito da rivisitare in Cruciverba lo scritto intitolato Storia della colonna infame, dove Sciascia parla della Milano secentesca, oscurantista e intollerante dominata dai “burocrati del Male”: gretti artefici di dottrine giuridiche pedanti e sadiche, nonché portatori di un farneticante bigottismo. Rispetto all’illuminista, egli si sente più vicino al cattolico Manzoni:
“Pietro Verri guarda all’oscurità dei tempi e alle tremende istituzioni, Manzoni alle responsabilità individuali”.
Per Manzoni, come per lui, l’oscura Ragion di Stato non può mai scagionare gli uomini dai misfatti commessi, giacché le scelte morali vanno oltre ogni condizionamento o circostanza. La vicenda dà a Sciascia la possibilità di cogliere parecchie zone d’ombra attraverso uno scaltro procedimento investigativo. Sicché, nello sbrogliare la matassa con le cadenze e il montaggio di un thriller, ci consegna una denuncia contro gli uomini di potere, ipocriti e agiati, despoti nei confronti delle loro serve con cui prima “negoziano” e che poi accusano di demonismo. A lui preme demistificare le innumerevoli, insidiose maschere del potere sino a svelarne il volto ripugnante. E si affida ai lettori, riorganizzando a mo’ di racconto le carte del processo a Caterina Medici, che gli erano state date dall’amico Franco Sciardelli.
Ecco ora alcuni aspetti della trama in cui si annida il crudele male del potere giudiziario esercitato con un abuso saccente contro gli indifesi, unitamente all’arrogante corporativismo di una medicina non dissimile dalla metafisica. Il senatore Melzi, uomo potente con tredici figli e all’epoca dei fatti sessantaduenne, soffre di strani dolori allo stomaco, inspiegabili dai medici che l’hanno in cura. L’esposto del figlio Ludovico, il secondogenito, presentato al Capitano di Giustizia Vacallo, il 26 dicembre 1616, fa presente il comportamento stregonesco di Caterina, la fantesca. Le cose si complicano quando questi va ad alloggiare in casa Melzi. I sospetti diventano certezza ed è lei stessa, Caterina, a confessare. Al cavalier Cavagnolo, che conduce l’interrogatorio, confessa infatti di aver fatto i malefizi con l’aiuto del diavolo.
Poi è la volta del Cancelliere del “Santo Officio”. La donna conferma ancora una volta di praticare l’arte della stregoneria e ammette i malefici adottati con l’aiuto del diavolo affinché il senatore si innamorasse di lei. Ci si trova dinanzi a un susseguirsi di accuse e interrogatori, di perquisizioni e confessioni. Non mancano gli esorcisti e gli esorcismi. Caterina viene interrogata più volte e da personaggi diversi, ma l’accusa non cambia. Gli stessi medici la ritengono colpevole.
Sottilissima l’ironia di Sciascia: la scienza medica nulla può nella diagnosi del malanni di Luigi Melzi non per deficienza, ma perché essa si annulla al cospetto del “diabolico ostacolo”. Lei spiega ai giudici, che agiscono con l’appoggio immancabile della Chiesa, quello che essi vogliono ascoltare.
In altri termini, Caterina non li contraddice; è disponibile “a dire e a fare” ciò che da lei si vuole, riconfessando di avere stregato il senatore e di aver fatto all’amore col diavolo che di lui aveva le sembianze. E lei parla, e di nuovo racconta, aggiungendo dettagli e slargando episodi. E nella sua invenzione i diavoli compaiono sempre e spuntano da ogni luogo. Sono l’essenza del gusto e del piacere.
Sciascia fa chiarezza:
“Questo è il punto; Caterina Medici credeva di essere strega o, quanto meno, aveva fede nelle pratiche di stregoneria. E forse una fede meno intera di quella dei suoi accusatori: poiché, in fatto di stregoneria, l’inquisitore e l’inquisito, il carnefice e la vittima, partecipavano dell’eguale credenza; ma streghe e stregoni, dal vedere tante loro pratiche non sortire alcun effetto, qualche dubbio dovevano pure averlo, mentre ovviamente non ne avevano coloro che li temevano o che di pratiche stregonesche si credevano affetti - e ancora di più i padri inquisitori, i giudici”.
Riflessione straordinaria la sua. Le donne, confessandosi streghe e rivelando i loro sortilegi per compiacere gli inquirenti, potevano avere dei dubbi sul loro stato, mentre i carnefici vivevano di certezze sull’arte della stregoneria. L’Inquisizione non poteva bruciare un corpo se non era confesso. Perciò per ottenere la confessione, si usava la tortura. Caterina, per non soffrirne la pena, aggiunge ulteriori confessioni a quelle già rese fino a entrare “nella perversa circolarità” che si stabilisce tra inquisitori e inquisiti, fra torturatori e torturati. Le perversioni sono infatti “suggerite” dai torturatori e fatte proprie dalle torturate con l’uso sorprendente della fantasia. Facendo altri nomi, probabilmente lei con fervida e imprevedibile immaginazione inventa situazioni. Sperando nella clemenza dei suoi aguzzini, si accusa di malefici, malanni e morti senza averne responsabilità; dandosi un ruolo di protagonista e riducendo i giudici a semplici spettatori passivi, racconta storie di repertorio, come un personaggio dell’Enrico IV o del Come tu mi vuoi, recitando da innocente la sua adesione alla crudele richiesta sociale dell’ambiente: tu vuoi che io sia questo e lo sarò, ma con molta più immaginazione, più intelligenza, più imprevedibilità di quanto tu non ti aspetti, fino a sorprenderti sul tuo stesso terreno e così farti testimone passivo della mia grandezza.
Ma lei è una creatura da annientare affinché possa essere di minaccioso monito:
“Il Senato e la Curia non volevano la verità, volevano creare un mostro che perfettamente si attagliasse al grado più alto di consustanziazione diabolica, di professione del male di cui i manuali di demonologia, classificandoli e descrivendoli, deliravano. Si voleva insomma costringere Carolina, coi tormenti, a uguale delirio. E Caterina non può che accontentarli”.
Vittima probabilmente innocente, subisce una tristissima sorte. Il 4 febbraio si conclude il processo. Un mese dopo è eseguita la sentenza. A Milano, Caterina Medici, serva “carnosa ma di ciera diabolica” (qualità che a Sciascia fanno venire in mente la Lupa del Verga), viene condannata al rogo:
"Sia condotta sopra un carro al luogo del pubblico patibolo, ponendole sulla testa una mitra con la dicitura del reato e figure diaboliche, e percorrendo le vie e i quartieri principali della città col tormentarla nel corpo con tenaglie roventi, per poi essere bruciata dalle fiamme...".
Sciascia ha condotto l’indagine con l’intento di ricercare una verità secondo giustizia. Donna dalla vita infelice questo personaggio femminile nel contesto di pregiudizi e orrende credenze mediche. Con la sua morte trionfa il degrado del perbenismo. I medici trovano un capro espiatorio alla loro inettitudine e la città di Milano si libera di una delle tante presenze diaboliche. Ma il libro La strega e il capitano insegna la prospettiva: diventa uno scritto contro l’intolleranza. Una battaglia che ancora oggi va sostenuta poiché il passato, dice Sciascia in Cruciverba, non è mai passato:
"e dobbiamo continuamente viverlo e giudicarlo nel presente, se vogliamo essere davvero storicisti".
La strega e il capitano
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