Fa ridere o arrabbiare Giufà, ama gironzolare per le strade del paese ed è la disperazione della madre. Poveretta, vedova di un uomo poco meno stupido del figlio, va in cerca di lui e lo trascina con sé per riportarlo in casa.
Questa l’annotazione fornita da Leonardo Sciascia all’inizio del suo racconto Giufà in ll mare colore del vino (Torino, Einaudi, 1973), di cui suggestiona la proposta grafica in arabo:
Per come allora si scriveva, il suo nome era come un piccolo uccello dalla coda dritta, crestato, un acino nel becco.
Quello di Sciascia è un racconto grottesco su questo strambo personaggio da sempre in ogni epoca ricercato dagli sbirri per le malefatte commesse:
E sbirri sempre per casa, ogni sorta di sbirri: quelli del càid e quelli del viceré, compagni d’arme di re Ferdinando e carabinieri di re Vittorio
.
Quella volta aveva ammazzato un cardinale, ma la fece franca per la stupidità associata alla malizia. Di tale intreccio è convinto Sciascia che offre ai lettori la rielaborazione dell’accattivante storia, Gìufà e lu Cardinali, inserita da Giuseppe Pitrè nella raccolta Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani (Palermo, 1880).
Ecco in sintesi il racconto di Leonardo Sciascia.
Giufà nel racconto di Sciascia
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Dotato di un “archibuso”, ricordo di un suo avo, seguendo il consiglio di alcuni sfaccendati che per divertimento lo frequentano, si reca in campagna per dare la caccia alla selvaggina. Aspetta Giufà gli esseri dalla testa rossa, cioè: qualunque cosa vivente che avesse la testa rossa. Egli non ha una minima idea del loro aspetto:
… non sapeva se fossero uccelli, o animali come lepri o gli asini, o addirittura come gli uomini.
Con l’arma che gli porta via le braccia per essere tanto pesante, aspetta e aspetta. La lunga attesa non viene delusa. Ad apparire è qualcosa di rosso: l’animale desiderato. Presa la mira, lo uccide. Gli sembra però il corpo di un uomo mentre lo trasporta a casa sulle spalle; a ogni modo, sarebbe stata una sorpresa per la madre:
C’era da mangiare per un mese.
Lei per poco non perde il senno:
Hai ammazzato il cardinale, hai ammazzato il cardinale.
Giufà, che non sa cosa possa essere un cardinale, vedendo la madre angosciata impulsivamente prende l’iniziativa di andarlo a gettare nel pozzo del cortile. In modo subdolo poi scaraventa in fondo al pozzo il montone che pascolava tra le “erbuzze” del cortile.
Sciascia scrive:
Poi di colpo […] si caricò sulle spalle il cardinale e andò a gettarlo nel pozzo del cortile. La madre ancora si agitava e gemeva. E Giufà sempre infuriato, ma non sappiamo se per furia o per calcolo, per stupidità o per malizia, prese il montone che sua mamma allevava, e in quel momento pasceva per le erbezze del cortile, lo sollevò alto e lo scaraventò dentro il pozzo. Più alto levò il gemito sua madre, corse al pozzo: il montone era bello e affogato.
Quando entrano in azione gli sbirri, la narrazione si fa divertita con dialoghi vivacissimi e mordaci. Sciascia così esprime la sua opinione sul ricordo o meno delle azioni commesse da Giufà:
Non si sa, quelli che riferiscono la storia non lo dicono, se Giufà avesse memoria di quel che aveva fatto. Erano passati pochi giorni da quando nel pozzo aveva buttato il cardinale e il montone: ma si sa che i babbei non hanno memoria o hanno memoria confusa, delle cose vere si ricordano nebulosamente, come dei sogni.
Il personaggio di Giufà: stolto o astuto?
Adesso Giufà, lo stolto, diventa un vero e proprio personaggio, mostrando un atteggiamento di derisione nei riguardi della religione e dei suoi poteri: sacrilego e dissacratore per la considerazione del cardinale di un uomo come tutti gli altri. Ed è tutto questo a produrre il comico e la derisione.
Per avere notizie mettono un premio, così il capitano di giustizia può apprendere che dal pozzo viene un odore di putrefazione.
Non nutre sospetti di Giufà. Anzi, gli viene l’idea di calarlo dentro per tirare su l’eventuale cadavere, promettendogli un’onza, dal momento che nessuno vuole condurre l’impresa per devozione al cardinale.
L’astuzia farsesca fa indossare a Giufà i panni del simulatore che si beffa degli sbirri. Per esempio, afferma di toccare qualcosa che può essere un cane.
- Io non ho mai visto un cardinale – disse Giufà – né tanto meno l’ho toccato: e qui sto toccando una cosa che può essere il cardinale oppure può essere un cane. - Malcreato! - gridò il capitano. - Ti insegnerò a nerbate che differenza c’è tra un cane e un cardinale. - Se parliamo di nerbate – disse Giufà – io non mi muovo più: e scendete voi a vedere se si tratta di un cardinale o di un cane.
- Ecco: sto toccando qualcosa una cosa pelosa, una cosa lanosa. Aveva lana addosso il cardinale?
- Non lo so - disse il capitano.
- Non lo sapete… E quanti piedi aveva il cardinale, lo sapete? -
… - Due - disse il capitano sbuffando collera.
- Questo qui ne ha quattro: dunque non è il cardinale -
Il capitano si indispone, si confonde, si spazientisce, minaccia e infine gli ordina di tirarlo su. Giufà, come se non avesse udito, chiede se il cardinale abbia le corna, nonché la spiegazione di cosa consista un cardinale:
- Com’è fatto un cardinale? - gridò il capitano.
- È fatto come me e te, imbecille. - Non ha niente di diverso, niente di speciale? - incalzò Giufà. - Niente disse il capitano. - E perché lo cercate con tanti sbirri? - Perché è un uomo importante, perché è come un principe. […] - e corna non ne ha… siete proprio sicuro che non ne ha? - Sicurissimo – disse il capitano, fremendo. - Ma un momento… Così, tanto per ragionare… - disse Giufà, che a guazzo nel pozzo ci stava fresco come sotto a una pergola.
- Voi dite che corna non ne aveva: e io vi credo… Ma voi l’avete conosciuto da vivo: che ne sapete che da morto non gli sono spuntate?… Io so che a chi da vivo ha fatto peccatacci, da morto gli vengono le corna. Il cardinale peccatacci ne aveva? L“e corna, Sua Eminenza? Hai detto le corna?” urlò il capitano. E cominciò a correre intorno al pozzo urlando “Sacrilegio! Sacrilegio” e digrignava i denti, e si dava colpi disperati sulla corazza.
- Non può essere? - domandò placido Giufà.
- Ti farò arrostire come un porco di latte - gli gridò il capitano affacciandosi al pozzo.
- Una domanda non si può fare? - disse Giufà.
- E voi ditemi com’è fatto un cardinale, e io non domando più niente. -
Per Giufà, sciocco e malizioso, la figura cardinalizia è anonima, non ha identità e nemmeno valore. Egli ignora l’organizzazione ecclesiastica, perché vive al di fuori di ogni istituzione. È irriverente, trasgressivo in ogni campo, stravolge le norme e mai si adegua alla realtà condivisa. “Refrattario ad ogni sentimento” lo definisce Sciascia nella citata prefazione. Uomo d’ordine è invece il capitano, ossequioso del prestigio dell’autorità. Il dialogo, che tra i due s’infittisce, mostra Giufà come un raffinato ragionatore. Difatti avanza l’ipotesi che da morto il cardinale, scambiato con il montone, possa avere le corna per i peccati commessi. Il vero si ribalta nel falso e il reale si muta nella finzione. Le provocazioni per difendersi dal reato commesso sono continue; addirittura chiede al capitano di cosa si occupasse il cardinale:
- E che arte faceva? - domandò Giufà.
- Arte? - fece il capitano. - Che arte cretino? Faceva il cardinale, faceva. Comandava i preti: tutti i preti della Sicilia. -
- Anche don Vincenzo? - domandò Giufà. Don Vincenzo era il prete della sua parrocchia.
- Anche Don Vincenzo - rispose paziente il capitano.
- E allora - disse Giufà - questo vostro cardinale secondo me le corna doveva averle: e io ve lo mando su, e lo vedete da voi.
Il racconto termina con la scena del montone tirato su. Sicché:
A nessuno venne più in mente di cercare ancora nel pozzo.
Sciocco e astuto, dunque Giufà: le due qualità sono inseparabili, l’una si rafforza con l’altra e viceversa; si scambiano vicendevolmente al fine di mettere alla berlina il potere unitamente alle comuni credenze sulla santità degli alti prelati.
Siamo con Giufà in una sorta di ingenuo candore che è sagacia sferzante e non mera stoltezza.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il personaggio di “Giufà” nel racconto di Leonardo Sciascia
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