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Recensioni di libri

Tre cene (l’ultima invero è un pranzo) di Francesco Guccini

Giunti, 2021 - Sotto taluni aspetti la prosa di Francesco Guccini ricorda l’impronta cinematografica di Sergio Leone. Stessa enfatizzazione dei tempi narrativi, stessa epicizzazione del gesto (persino del tic) dei personaggi, stessa attrattiva per un epos quotidiano dislocato.

Mario Bonanno
Mario Bonanno Pubblicato il 01-12-2021
Tre cene (l'ultima invero è un pranzo)

Tre cene (l’ultima invero è un pranzo)

  • Autore: Francesco Guccini
  • Genere: Gialli, Noir, Thriller
  • Categoria: Narrativa Italiana
  • Casa editrice: Giunti
  • Anno di pubblicazione: 2021

Sotto taluni aspetti la prosa di Francesco Guccini ricorda l’impronta cinematografica di Sergio Leone: stessa enfatizzazione dei tempi narrativi, stessa epicizzazione del gesto (persino del tic) dei personaggi, stessa attrattiva per un epos quotidiano dislocato (in Guccini) dai campi lunghi a perdere del west alle altitudini boschive dell’appenino tosco-emiliano. Malgrado il contrafforte dell’ironia, il disincanto ontologico presente in Leone in Guccini scompare, supplito dal crespo di una malinconia che si misura col tempo – e dunque coi ricordi e la vita trascorsa –, filo rosso effettivo del suo specifico.

Quando non firma i gialli con Loriano Macchiavelli, ogni libro di Francesco Guccini risulta sottotraccia commisto a sottilissime geografie interiori: tempi, luoghi, fatti, persone che c’erano e, oramai, non ci sono più. Tre cene (l’ultima invero è un pranzo) (Giunti, 2021) è un libro ulteriormente riepilogativo di tale aspetto: c’è lo sfondo appenninico tra Bologna e Pistoia, ci sono gli amici tiratardi di una volta, e dunque ci sono le carte, il cibo, le bevute, le rimembranze, le donne mitizzate e il tempo andato pure. E c’è – immanente come una buriana annunciata da un cielo stipato di nuvole – il gusto agro-dolce della vita scappata, e riesumata solo a scampoli nel presente. La trama del libro, per chi fosse ossessionato dalle trame, è relativa, un pretesto per confrontarsi con le sedimentazioni – felici e infelici – di questa cosa che chiami vita:

“Ma il tempo, il tempo chi me lo rende?
Chi mi dà indietro quelle stagioni
di vetro e sabbia, chi mi riprende
la rabbia e il gesto, donne e canzoni
Gli amici persi, i libri mangiati
la gioia piana degli appetiti
l’arsura sana degli assetati
la fede cieca in poveri miti
Come vedi tutto è usuale
solo che il tempo stringe la borsa
e c’è il sospetto che sia triviale
L’affanno e l’ansimo dopo una corsa
L’ansia volgare del giorno dopo
La fine triste della partita
Il lento scorrere senza uno scopo
di questa cosa che chiami vita”

Nelle prime pagine di Tre cene è Guccini stesso a mettere le mani avanti, smorzare possibili aspettative dei giallofili, introdurre agli strati significativi dei suoi racconti:

“Non aspettatevi grandi avvenimenti dalle cose che andò raccontando, fulminanti colpi di scena come agnizioni improvvise o finali drammatici o misteri iniziali che poi, a poco a poco, logicamente sgretolati dalle deduzioni di un abile investigatore, si dipanano e si mostrano in tutta la loro enigmatica chiarezza”.

Con salti di tempo e di spazio, con una prosa fluviale che interseca storie, memorie, divagazioni, paesaggi, goliardia, sentimenti sopiti e riesumati, stazioni dopo stazioni, Francesco Guccini ci accompagna dentro e fuori i confini di un microcosmo resistente e sconfitto al tempo stesso: dai miseri anni Trenta della guerra vicina e dell’emigrazione, a un’attualità desertificata discendente dagli slanci e i fiumi di poesia lasciati alle spalle. Tre cene (e l’ultima è davvero un pranzo), tre racconti, tre affluenti di una medesima condizione esistenziale di paese, giorni e stagioni andate, sfumate nel corollario dolceamaro della memoria.

“C’era gente, in paese, perché in quel periodo erano tutti lì. Era finita da un pezzo ala grande emigrazione in Maremma, o in Corsica e Sardegna o anche sulla Sila, a fare il carbone di macchia, quello che allora serviva per i fornelli delle cucine. Non c’era ancora nelle case il gas, allora ce ne voleva tanta, di quella carbonella, e gli imprenditori, i capi compagnia, si presentavano sui nostri Appennini a cercare mano d’opera. Arrivavano di solito alla fine di novembre, quando il grande la voro delle castagne, quello più importante, quello che avrebbe dato cibo per tutto l’inverno, quello iniziato in primavera e continuato quasi in interrottamente fino a poco prima di Natale, era già finito, e quegli uomini avevano davanti soltanto mesi lunghi senza possibilità di guadagnare da nessuna parte”. (pagg. 12-13)

Francesco Guccini non ha mai derogato dalle proprie radici. Questo (ennesimo) libro giocoso e pensoso, di tempra montanara e tratto ricercato ma senza maniera, ne è riprova.

Tre cene (l'ultima invero è un pranzo)

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© Riproduzione riservata SoloLibri.net

Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Tre cene (l’ultima invero è un pranzo)

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