

In occasione della Giornata della Memoria, riscopriamo il testo della canzone di Francesco Guccini dal titolo Auschwitz (La canzone del bambino nel vento), che risale al 1966.
Uscita in formato singolo e cantata dall’Equipe 84, la canzone si inserisce appieno nel sotto-filone delle ballate “civili” primo-gucciniane (Dio è morto, Primavera di Praga, Noi non ci saremo, L’atomica cinese, Il vecchio e Il bambino). Il cantautore arriverà a inciderla a sua volta un anno dopo, in occasione dell’uscita di Folk Beat n.1 (EMI, 1967), il 33 giri che ne segna l’esordio.


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Il testo è desunto dal libro testimonianza di Vincenzo Pappalettera (Tu passerai per il camino. Vita e morte a Mauthausen) e, malgrado risenta giocoforza di uno stile ancora acerbo (la scrittura gucciniana saprà esprimersi attraverso canzoni di gran lunga più sfumate e mature), risulta comunque dotato di efficacia funzionale al “messaggio”: dice le cose che deve dire, e le sa dire.
N.d.r. Il nostro collaboratore Mario Bonanno, critico musicale, fine conoscitore del cantautorato italiano e autore del saggio Il cantautore delle domande consuete. Francesco Guccini in 100 pagine (Aereostella, 2014), ci accompagna nell’analisi del testo della canzone.
“Auschwitz”: testo della canzone di Francesco Guccini
Son morto con altri cento
Son morto ch’ero bambino
Passato per il camino
e adesso sono nel vento
e adesso sono nel ventoAd Auschwitz c’era la neve
Il fumo saliva lento
nel freddo giorno d’inverno
E adesso sono nel vento
Adesso sono nel ventoAd Auschwitz tante persone
ma un solo grande silenzio
È strano non riesco ancora
a sorridere qui nel vento
a sorridere qui nel ventoIo chiedo come può un uomo
uccidere un suo fratello
Eppure siamo a milioni
in polvere qui nel vento
In polvere qui nel ventoAncora tuona il cannone
Ancora non è contento
di sangue la belva umana
e ancora ci porta il vento
e ancora ci porta il ventoIo chiedo quando sarà
che l’uomo potrà imparare
a vivere senza ammazzare
e il vento si poserà
e il vento si poserà
“Auschwitz” di Francesco Guccini: analisi e significato del testo
La ballata si declina a due voci: da un lato il racconto del “bambino nel vento” che in prima persona narra della sua morte nel campo di concentramento di Auschwitz (“son morto con altri cento/ sono morto ch’ero bambino/ passato per il camino”, cioè il camino dei forni crematori); dall’altro le domande retoriche di un narratore onnisciente, interprete dello sdegno maturato verso l’efferatezza umana, che rintraccia nell’Olocausto la sua massima espressione:
“Io chiedo come può un uomo/ uccidere un suo fratello/ Eppure siamo a milioni/ in polvere qui nel vento”
In Auschwitz il genocidio diventa d’altro canto epitome della spietatezza connaturata all’essere umano, nella penultima strofa esteso a conflitti e genocidi di ogni tipo e natura:
"Ma ancora tuona il cannone/ Ancora non è contenta di sangue/ la belva umana/ E ancora ci porta il vento (…) Io chiedo quando sarà/ che l’uomo potrà imparare/ a vivere senza ammazzare/ e il vento si poserà”.
In altre parole: assecondando suggestioni dylaniane e non limitandosi all’esclusiva stigmatizzazione dello sterminio ebreo nei campi di concentramento, Guccini universalizza il discorso, allargando la condanna a qualsivoglia guerra passata o ancora in corso, come all’epoca della canzone poteva essere quella del Vietnam.
Se al cospetto di tutto ciò il cantautore impiega le frasi pleonastiche della disillusione (“Io chiedo quando sarà/ che l’uomo potrà imparare/ a vivere senza ammazzare”) è anche vero che la chiusura di strofa introduce a un refolo di speranza (“e il vento si poserà”), secondo stilemi già rintracciabili nella pressoché coeva Dio è morto, in cui la stigmatizzazione di Dio che muore “ai bordi delle strade… nelle auto prese a rate… nei miti dell’estate Dio è morto … nei campi di sterminio … coi miti della razza … con gli odi di partito” trova sbocco nell’impegno e nel coraggio civile di una
“generazione (…) preparata/ a un mondo nuovo a una speranza appena nata/ ad un futuro che ha già in mano/ a una rivolta senza armi/ perché noi tutti orami sappiamo/ che se Dio muore è per tre giorni/ e poi risorge/ In ciò che noi crediamo … in ciò che noi vogliamo … nel mondo che faremo Dio è risorto”.


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Strutturato in strofe regolari, il testo di Auschwitz si declina attraverso un linguaggio di tipo narrativo, sostenuto da un commento musicale a rinforzo del contenuto delle strofe:
- prima parte soffusa, melanconica, a rimarcare il racconto del bambino nel vento;
- seconda più sostenuta, a sottolineare la rabbia del narratore onnisciente;
- terza di nuovo soffusa, commento sonoro di una speranza sottile, sentimento lieve, quasi impalpabile.
Al pari della succitata Dio è morto, la mesta ballata non war di Guccini guadagna da subito un consenso trasversale. Le frange più illuministe della società accolgono la triste storia del bambino ucciso ad Auschwitz “con altri cento” come paradigmatica dell’orrore della guerra. Il testo è semanticamente semplice, immediato (strofe brevi, rime facili) ma proprio in forza di ciò retoricamente efficace, in grado di generare commozione poetica e dunque meritatamente divenuto immortale.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Auschwitz” di Francesco Guccini: testo, analisi e il libro che ha ispirato la canzone
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