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Recensioni di libri

Morte dell’inquisitore di Leonardo Sciascia

“Morte dell’inquisitore” è una coinvolgente microstoria sulle menzogne e sulla violenza del potere, che felicemente amalgama il saggio con il racconto, il passato con l’attualità della vicenda.

Federico Guastella
Federico Guastella Pubblicato il 17-03-2020

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Morte dell'inquisitore

Morte dell’inquisitore

  • Autore: Leonardo Sciascia
  • Genere: Romanzi e saggi storici
  • Categoria: Narrativa Italiana
  • Casa editrice: Adelphi

Scheda e prezzo libro:

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Il libro Morte dell’Inquisitore, pubblicato da Laterza nel 1964 (l’anno successivo a Il consiglio d’Egitto) e riedito nel 1992 per Adelphi, è definito da Sciascia come “breve saggio o racconto”. Con questo scritto egli si scopre storico, anche e soprattutto investigatore, volendo costringere qualcuno a confessare la verità o quanto meno a rivelargli una pista da seguire per risolvere i misteri di un caso.

Nella prefazione alla seconda edizione del volume si legge:

"Questo breve saggio o racconto, su un avvenimento e un personaggio quasi dimenticati della storia siciliana, è la cosa che mi è più cara tra quelle che ho scritto e l’unica che rileggo e su cui ancora mi arrovello. La ragione è che effettivamente è un libro non finito, che non finirò mai, che sono sempre tentato di riscrivere e che non riscrivo aspettando di scoprire ancora qualcosa: un nuovo documento, una nuova rivelazione che scatti dai documenti che già conosco, un qualche indizio che mi accada magari di scoprire tra sonno e veglia, come succede al Maigret di Simenon quando è preso da un’inchiesta. Ma a parte questa passione per il mistero ancora non svelato, che ancora non sono riuscito a svelare, c’è che questo breve mio scritto ha provocato intorno a sé come un vuoto: di diffidenza, di irritazione, di rancore".

Da febbrile indagatore, Sciascia analizza fonti, commenta e rappresenta intrighi, intrallazzi, soprusi a danno della comunità di Racalmuto dominata nel Seicento dall’alleanza del Sant’Uffizio con i Del Carretto e con Girolamo II che esercita il potere “in modo “crudele” e “brigantesco”. L’intento è di voler conoscere a fondo, fra abiure e assoluzioni fino al carcere senza speranza per la sua eresia, la vita di Diego La Matina di Racalmuto dell’ordine della riforma di S. Agostino, “detti li patri della Madonna della Rocca”.
Peraltro, su di lui pesa l’accusa di aver provocato la morte dell’inquisitore spagnolo di Sicilia Don Juan Lopez Cisneros.

Mentre costui visita i carcerati nel palazzo dei Chiaramonte a Palermo, sede dell’Inquisizione, viene fatto morire di percosse per mano del prigioniero Fra Diego, dopo che ha infranto le manette. Da qui la terribile condanna eseguita a Palermo nel marzo del 1658: “che vivo abrugiato, fossero al vento le di lui ceneri disperse”.

Quale era la colpa di fra Diego per cui era stato rinchiuso in carcere? Che cosa era accaduto nella sua mente fino a quella violenza che l’ha condotto al rogo? È morto da martire l’inquisitore? L’omicida fu davvero il frate?

Poiché le fonti consultate forniscono elementi contrastanti e le spiegazioni sono lacunose e insufficienti, l’operetta si configura come indagine poliziesca. Sicché, lo scrittore assume il duplice ruolo del detective e del giurista per sbrogliare la matassa con un intervento ermeneutico lungo il tracciato del rapporto letteratura-verità.

Sciascia consulta archivi, scandaglia le storie disponibili e raccoglie un’ampia documentazione sull’istituzione del Sant’Uffizio, su chi la rappresentasse e su quelli che la sostenevano. Interrogatori e torture vengono ricostruiti dettagliatamente e si tratteggiano dettagli che mettono in luce la psicologia di Fra Diego, uomo di “forza fisica enorme”, e del grande inquisitore.

Il contesto socio-culturale mostra la refrattarietà dei siciliani alla metafisica, al mistero, all’invisibile rivelazione, nonché la loro ostilità alla religione istituzionalizzata con riguardo al sacramento della confessione. La minaccia proviene dall’alleanza fra Inquisizione e potere laico esercitata anche una rete di informatori e delatori che, annota Sciascia, “avrebbero fatto impallidire d’invidia l’OVRA”. Ne deduce che l’eresia di fra Diego, oltre a essere di natura teologica, dovette essere eversiva: “più sociale che teologica", e forse “un’opinione contro la proprietà”. Egli avrebbe fatto leva sul malcontento popolare traducendolo in rivolta; forse avrebbe anche fomentato l’insurrezione palermitana del 1647.
Questa la presunta colpa:

"Bivalente: un’azione che fosse stata al tempo stesso eresia e contravvenzione alle leggi ordinarie. Per esempio: un’idea od opinione contro la proprietà o contro certe forme della proprietà […], un’opinione o protesta contro la pressione fiscale in quel momento esercitata con particolare ferocia sul popolo siciliano. […] In senso teologico, pare che la sua eresia si possa restringere e riassumere nell’affermazione che Dio è ingiusto; poiché non soltanto sul rogo fra Diego la pronunciò ripetendo l’antica sua bestemmia, dunque: e sarà stata la finale proposizione ereticale delle sue concezioni morali e sociali. E par facile poter formulare l’ipotesi che dalla rivolta contro l’ingiustizia sociale, contro l’iniquità, contro l’usurpazione dei beni e dei diritti, egli sia pervenuto, nel momento in cui vedeva irrimediabile e senza speranza la propria sconfitta, e identificando il proprio destino con il destino dell’uomo, la propria tragedia con la tragedia dell’esistenza, ad accusare Dio. Non a negarlo, ma ad accusarlo".

A stagliarsi è dunque la figura gigantesca del “ribelle”. Fra Diego, personaggio di scomodo, afferma l’uguaglianza degli uomini secondo natura. Nel tentativo di scoprire il vero, Sciascia confessa di avere avuto in mente uomini “di tenace concetto: testardi, inflessibili, capaci di sopportare enormi quantità di sofferenza, di sacrificio”.

Ha scritto di fra Diego come di uno di loro: “eretici non di fronte alla religione (che a loro modo osservavano o non osservavano), ma di fronte alla vita”. L’indagine ha ampio respiro, l’obiettivo è quello di mostrare i meccanismi repressivi dei dominatori sempre in agguato, a prescindere dal tempo e dal luogo di riferimento. Nel contempo, lo scrittore individua nel frate il rivoltoso che sa sfidare la violenta ingiustizia manifestata a danno del popolo. In sostanza, la vita autentica consiste in un’eresia permanente che “tiene alta la dignità umana” con tutela del libero pensiero. È nella lotta contro la repressione che l’essere umano afferma la più elevata forma di eticità.


© Riproduzione riservata SoloLibri.net

Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Morte dell’inquisitore

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