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Recensioni di libri

La corda pazza di Leonardo Sciascia

Una raccolta di saggi tra “sicilianità” e “sicilitudine”, che rappresentano un microcosmo di allucinazione e sofferenza, di abiezioni e memorie artistiche.

Federico Guastella
Federico Guastella Pubblicato il 26-03-2020

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La corda pazza

La corda pazza

  • Autore: Leonardo Sciascia
  • Categoria: Saggistica
  • Casa editrice: Einaudi

Scheda e prezzo libro:

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Il discorso sulla Sicilia è sviluppato da Sciascia nei diversi saggi che compongono l’opera La corda pazza (Einaudi, 1970). Il titolo è desunto da Pirandello, specificamente rinvia a una battuta nella commedia Il berretto a sonagli:

"Deve sapere che abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria, la civile, la pazza".

Sciascia la cita nello scritto che intitola l’opera dedicato al modo di vivere e di operare del barone Pietro Pisani, insieme a un’altra dall’Enrico IV:

"E via, sì, sono pazzo! Ma allora, perdio, inginocchiatevi! Vi ordino di inginocchiarvi tutti davanti a me – così. E toccate tre volte la terra con la fronte! Giù Tutti, davanti ai pazzi, si deve stare così".

Indirizziamo l’attenzione al saggio d’apertura Sicilia e sicilitudine. Innanzitutto una precisazione. A conclusione, Sciascia usa il termine “sicilianità”. Il neologismo "sicilitudine", a dirlo è lui stesso, è stato coniato da “uno scrittore siciliano d’avanguardia”, di cui non viene indicato il nome e il cognome. L’autore è il palermitano Crescenzio Cane, che aveva già usato la parola in un suo racconto-saggio del 1959. Nel mese di dicembre del 1972 a Palermo, Sciascia, presentandolo nel catalogo della prima mostra di pittura, fatta alla galleria “Arte al Borgo”, scrive:

“Crescenzio Cane è l’inventore della parola “Sicilitudine” che lettori distratti e critici peggio che distratti ingiustamente e ingiustificatamente ritengono mia".

Facendo tesoro degli Avvertimenti a Marco Colonna quando andò vicerè in Sicilia di Scipio di Castro, messinese e scrittore del secolo XVI, del discorso di Pirandello sul Verga del 19201 e delle parole che don Fabrizio, nel Gattopardo, rivolge al piemontese Chevalley sulla presunta fierezza e arroganza che si oppongono al cambiamento, Sciascia definisce i tratti comportamentali del siciliano secondo l’ottica storicistica che utilizza la chiave di lettura gramsciana: quelli non naturali che risultano “da particolari vicissitudini storiche e dalla particolarità degli istituti”.

A suo dire, “l’insicurezza è la componente primaria della storia siciliana”, conseguente al dominio dei popoli conquistatori. Ne è derivata una continua vulnerabilità che ha condizionato il modo di essere e la visione della vita:

“paura, apprensione, diffidenza, chiuse passioni, incapacità di stabilire rapporti al di fuori degli affetti, violenza, pessimismo, fatalismo”.

La fragilità si è poi tradotta nella tendenza al separatismo e all’indipendenza, causa di privilegi mai goduti dal popolo, tra cui la concessione dell’autonomia regionale (“una franchigia, che lo Stato italiano, sotto la pressione del movimento separatista, concedeva alla classe borghese-mafiosa”).

La seconda parte del saggio pone in discussione la tesi di Gentile sulla cultura siciliana “sequestrata”, cioè tagliata fuori dal movimento della cultura europea e considerata dal filosofo di Castelvetrano “limitata”, “angusta”, “in se stessa riflessa ed esaurita”.
Nel contempo, viene presentata la tesi opposta, portata avanti da eruditi e giornalisti locali: quella di una “Sicilia aperta e comunicante, di una cultura vivacemente italiana ed europea”.
L’analisi, sia pure a volo d’uccello, accoglie i contributi dell’una e dell’altra tesi:

“che bisogna serenamente confrontare e contemperare, invece che metterle in sterile opposizione e polemica”.

Se la cultura siciliana ha sempre avuto la Sicilia come referente, rappresentandola come metafora del mondo (“con una forza, un vigore, una compiutezza che arrivano all’intelligenza e al destino dell’umanità tutta”), si pone però l’esigenza di una sua riscrittura in un disegno organico, muovendo da piste di di ricerca così indicate:

“...da quali “officine” uscivano tutti quei bei quadri che nei secoli XV e XVI le dogane siciliane registrano in esportazione? E come mai nel Seicento poeti in dialetto siciliano vengono stampati a Venezia e a Firenze? Chi furono e quali idee professarono certe vittime dell’Inquisizione, finora ignote, di cui è rimasta testimonianza nelle scritte e nei disegni sulle pareti del carcere? Perché vescovi e viceré si preoccuparono tanto della diffusione del giansenismo? Perché e come gli architetti siciliani del barocco ebbero più contatti con Parigi che con Roma?”.

Affascina la prosa saggistica di Sciascia: raffinate e profonde sono le argomentazioni, colte e documentate in un fitto intreccio dal pregio letterario, in un viaggio dettagliato in Sicilia. Ci sono lavori su scrittori e artisti dell’Isola e altri di rilevanza socio-antropologica come le Feste religiose in Sicilia (1965).

Il libro è ideologicamente omogeneo e coerente. Si amalgamano i saggi con la narrazione e vi si ritrova una condizione, una tradizione, un modo di essere spesso tradito dalle interpretazioni filmiche come appare nel lavoro La Sicilia nel cinema. La scrittura dà un microcosmo di irrazionalità e dolore, di alienazione e sofferenza, di abiezioni e memorie artistiche. E questa follia, e questa allucinazione si toccano con mano nello scritto La zolfara.


© Riproduzione riservata SoloLibri.net

Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La corda pazza

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