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Recensioni di libri

In altre parole di Jhumpa Lahiri

Guanda, 2015 - L’ormai nota scrittrice anglo-bengalese Jhumpa Lahiri non racconta l’innamoramento per un uomo, bensì per una lingua, l’italiano. La straordinarietà di questa riflessione che la scrittrice mette su carta in una lingua che ha imparato da grande rende questo libro unico.

Elisabetta Bolondi
Elisabetta Bolondi Pubblicato il 25-02-2015

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In altre parole

In altre parole

  • Autore: Jhumpa Lahiri
  • Categoria: Narrativa Italiana
  • Casa editrice: Guanda
  • Anno di pubblicazione: 2015

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“Questa è la storia di un colpo di fulmine...”

L’ormai nota scrittrice anglo-bengalese Jhumpa Lahiri non racconta l’innamoramento per un uomo, bensì per una lingua, l’italiano.
La straordinarietà di questa riflessione che la scrittrice mette su carta in una lingua che ha imparato da grande rende questo libro originale, direi unico.

Jhumpa è nata a Calcutta dove ha vissuto fino ai quattro anni parlando bengalese con i suoi, che si sono trasferiti poi in America dove vivono, tuttora. A New York, Jhumpa frequenta la scuola e la sua vera lingua diventa l’inglese, anche se in casa i genitori conservano le loro tradizioni e la loro lingua e sono ostili a quella degli americani e al loro stile di vita che rispettano ma non condividono.

Jhumpa Lahiri, studentessa brillantissima, studia letteratura, traduce il latino, si appassiona alla cultura classica e a venti anni fa un viaggio a Firenze: ecco il colpo di fulmine, la lingua italiana diventa per la giovane donna una specie di ossessione; comincia a studiarla con un’insegnante italiana e la va perfezionando leggendo e provando a scrivere nella nostra lingua. Recentemente, già celebre autrice anglofona, decide di fare il passo più coraggioso: trasferirsi a vivere a Roma con la famiglia per continuare il suo apprendistato della lingua e diventarne assoluta padrona. Ma qui si innestano le complesse e profonde riflessioni che confluiscono nel libro scritto in italiano:

“Perché scrivo? Per indagare il mistero dell’esistenza. Per tollerare me stessa. Per avvicinare tutto ciò che si trova al di fuori di me... La scrittura è il mio unico modo per assorbire e per sistemare la vita. Altrimenti mi sgomenterebbe, mi sconvolgerebbe troppo”.

E questo desiderio insopprimibile di scrivere si risolve anche nel praticare una terza lingua, un triangolo di cui il lato più forte è l’inglese, mentre gli altri due lati, il bengalese e l’italiano, più vicini di quanto non si pensi, sono il luogo dell’esilio psicologico e linguistico di Jhumpa, che non si trova nella “madre patria” da nessuna parte. Al suo ritorno a Roma dopo le vacanze a New-York afferma:

“Sono diversa, così come ero diversa dai miei genitori quando andavamo in vacanza dagli Stati Uniti a Calcutta. Non torno a Roma per raggiungere la mia lingua. Torno per continuare a corteggiarne un’altra”.

Lo sforzo incredibile, la lettura degli scrittori italiani, Pavese, Calvino, Verga, Leopardi, Machiavelli, Elena Ferrante, Ortese le fanno capire che una lingua imparata anche benissimo da grandi non è come quella imparata nell’infanzia, c’e sempre un muro simbolico, altissimo, ermetico che è il muro della lingua in sé.

Lahiri tocca poi il nodo della traduzione: tema carissimo a tutti gli scrittori, che affronta in un racconto metaforico posto al centro del libro, dal titolo “Lo scambio”: la protagonista “voleva generare un’altra versione di se stessa, nello stesso modo in cui poteva trasformare un testo da una lingua a un’altra”, in cui è esplicitato il progetto letterario della stessa scrittrice.

Qual è il libro che ha più amato Jhumpa? Risponderà ad una platea di autori a Londra in modo imprevedibile: Le Metamorfosi di Ovidio. Nell’averne curato la traduzione in gioventù la scrittrice ha scoperto molto di sé e delle sue pulsioni più profonde, specialmente nell’episodio celebre della trasformazione di Dafne in alloro, inseguita da Apollo che vuole ghermirla. Mentre dunque la ninfa per effetto della metamorfosi cambia radicalmente assumendo una nuova forma che la rende irriconoscibile, Jhumpa Lahiri capisce che per lei la metamorfosi completa non è davvero possibile:

“Posso scrivere in italiano ma non posso diventare una scrittrice italiana. Nonostante io scriva questa frase in italiano, la parte di me condizionata a scrivere in inglese resta.”

Nel mondo globalizzato dove la distanza tra paesi e interi continenti si annulla attraverso la tecnologia, la distanza linguistica continua a separare i popoli anche se un tentativo come quello di Jhumpa Lahiri ci spinge a pensare che una comunità che si parla e si capisce in profondità, pur provenendo da diverse lingue madri, potrà forse realizzarsi.

In altre parole

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© Riproduzione riservata SoloLibri.net

Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: In altre parole

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Una nuova terra
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Commenti: 1

  • Katja Giazitzidis
    20 settembre 2019, 22:22

    “In altre parole” non è un romanzo convenzionale. Piuttosto il lettore si trova di fronte ad un racconto di introspettiva, un resoconto personale dell’autrice.

    “In altre parole” parla del tentativo della scrittrice di imparare la lingua italiana.
    A prima vista l’apprendimento di una lingua straniera non sembra un argomento abbastanza interessante per scrivere un libro. Pare di più un compito quotidiano, per quanto difficile e faticoso sia. Dopotutto lo fanno migliaia di persone ogni giorno ovunque al mondo. Per Lahiri però questo compito è stato un percorso profondamente personale. Lungo l’apprendimento dell’italiano lei cerca di capire chi sia quanto come persona tanto come scrittrice.

    Quando Lahiri è venuta per la prima volta in Italia era una giovane neolaureata. Secondo lei, il suo incontro con la lingua italiana è stato un colpo di fulmine. Quest’amore a prima vista si è trasformato in una sorta di passione persistente. Per molti anni la scrittrice si è messa a studiare intensamente l’italiano negli Stati Uniti e nel 2012 ha deciso di trasferirsi con la sua famiglia per tre anni a Roma. Durante questo soggiorno Lahiri ha scritto e pubblicato questo libro, che è stato concepito dall’inizio in italiano.

    Nata da genitori indiani Lahiri è di madrelingua bengalese. Quando, a quattro anni, è andata all’asilo, l’inglese invade bruscamente la sua vita per la prima volta. Lei lo descrive così: “ Il mio primo incontro con l’inglese è stato duro, sgradevole: quando sono stata mandata all’asilo sono rimasta traumatizzata. Mi era difficile fidarmi delle maestre e fare amicizie, perché dovevo esprimermi in una lingua che non parlavo, che conoscevo a malapena, che mi sembrava estranea.” Lahiri non riesce mai ad identificarsi con nessuna delle due lingue. Come tanti discendenti degli immigrati, ha anche lei un’identità divisa. Questo sconcerto ha creato una distanza sia dalla sua famiglia sia dagli americani e le ha lasciata un senso di mancata appartenenza.

    Intrappolata tra le due metà della sua identità, il desiderio della scrittrice, che ci sia una terza scelta linguistica sembra non ovvia ma almeno comprensibile. Da questa prospettiva si spiegano anche le intense emozioni che Lahiri prova per l’italiano. Questo motivo per imparare una lingua straniera è sicuramente fuori dal comune e fa parte del fascino del libro.

    Le aspettative dall’autrice all’italiano sono altissime. Lahiri spera quasi di ridefinire se stessa, di riempire quel vuoto vissuto fin dall’infanzia. I ragionamenti della scrittrice sui limiti di questo processo sono l’altro aspetto interessante del libro. Innanzitutto Lahiri cerca di rispondere alla domanda, su quale livello di conoscenza si possa raggiungere in una lingua straniera a paragone della madrelingua. Lahiri è sempre consapevole del fatto che la sua scrittura in italiano non la rende una scrittrice italiana. Secondo lei, quello che cambia nel processo della scrittura non sono i modi, ma il risultato ottenuto, con cui deve, a volte, accontentarsi. “Non posso tuffarmi nell’italiano con la stessa profondità (come nell’inglese). Posso sperare di scrivere in modo corretto, optare per una parola alternativa. Ma non possiedo un vocabolario vissuto, stagionato fin dall’infanzia. Non posso scrutare l’italiano con la stessa precisione... Devo accettare che in italiano sono parzialmente sorda e cieca, per cui temo di essere una scrittrice spuria.” Non solo nella padronanza dell’italiano Lahiri tocca i limiti. Nel capitolo “Il muro” l’autrice descrive il disagio che prova quando persone sconosciute, come le commesse nei negozi, si rivolgono a lei in inglese. L’esperienza di essere percepita come una straniera la emoziona ogni volta. È una esperienza che Lahiri non fa solo in Italia, ma ovunque sia, anche in America e in India. Per lei l’inclusione totale non si raggiunge mai.

    “In altre parole” non racconta solo la storia di una donna, che si è appassionata con la lingua italiana, ma anche la storia di una persona, che cerca di trovare un nuovo equilibrio interno. I successi, le difficoltà, i dubbi, che accompagnano questo processo e anche i suoi limiti fanno “In altre parole” oltrepassare il confine di una storia personale. La domanda su chi siamo sorge nella vita di tutti e non solo una volta, visto che, invecchiando cambiamo. Perciò la risposta che diamo ogni volta non è mai definitiva.

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