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Recensioni di libri

In questa Italia che non capisco di Mark Twain

Mattioli 1885, 2019 - Lo scrittore e giornalista americano soggiornò in Italia per quattro volte e si trattenne a lungo in particolare a Firenze, nel 1892-93 e 1900-1903, ma il suo sguardo rimase critico, mai innamorato dell’arte.

Felice Laudadio
Felice Laudadio Pubblicato il 05-02-2020

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In questa Italia che non capisco

In questa Italia che non capisco

  • Autore: Mark Twain
  • Genere: Letteratura di viaggio
  • Categoria: Saggistica
  • Anno di pubblicazione: 2019

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Irriverente, impertinente, beffardo, mangiapreti: al turista Mark Twain non andavano affatto a genio il Bel Paese, il clero che lo affollava e i suoi abitanti. Nei confronti delle italiane, invece, si mostrava tenero, gli sembravano bellissime. Le edizioni Mattioli 1885 hanno pubblicato nel 2019 una nuova edizione del libro In questa Italia che non capisco (205 pagine, 16 euro, a cura di Livio Crescenzi).

Lo scrittore e giornalista americano soggiornò in Italia per quattro volte in ognuno dei suoi viaggi in Europa e si trattenne a lungo in particolare a Firenze, nel 1892-93 e tra il 1900 e il 1903, senza mostrare mai lo sguardo incantato di gran parte dei viaggiatori del Grand Tour di fine Settecento o nutrire l’amore incondizionato di tutti gli stranieri per la Toscana. Sembrava abbagliato dalla bellezza dei luoghi e dalla maestosità di certi monumenti (il Duomo di Milano), ma il suo sguardo severo notava e condannava il “fetore” che saliva dalle acque della laguna nella decadente Venezia, il “luridume” nei vicoli di Civitavecchia, la “gentucola chiassosa” che affollava quelli di Napoli, lo stato di penosa rovina in cui si mostravano ai suoi occhi le antiche vestigia della Roma dei Cesari.

Lo Yankee ch’era in lui apprezzava il paesaggio, ma non riconosceva l’arte: lo stesso Twain ammette che negli Stati Uniti si studiava ben altro di concreto dell’educazione artistica, che peraltro considerava roba da snob. Così, più che una meraviglia architettonica, Santa Maria del Fiore a Firenze gli sembrava un dispendioso cantiere senza fine. Non riusciva a riconoscere le tracce e il fascino della ricchezza di una volta, nei templi romani ridotti a ruderi e moncherini di colonne. La profusione di opere d’arte che si potevano ammirare in Italia lo annoiava. Lo attiravano di più le ferrovie del nuovo Regno dei Savoia, specie le stazioni, di solido marmo levigato, ben tenute, bianche tanto da luccicare di notte. Anche qui, però, accanto ai complimenti, la stoccata senza appello: non si capacitava, a suo dire, di come un Paese “ridotto in bancarotta dai suoi governanti incapaci” potesse possedere costruzioni tanto sontuose e anche strade straordinarie fuori città.

Dei musei gli importava punto o niente. Non lo scaldavano le gallerie di inestimabili tesori d’arte sparse dovunque, da Nord a Sud. Non gli garbava nemmeno l’ultima cena di Leonardo, il capolavoro nella chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano. Lo riconosceva come uno degli affreschi più imponenti in Europa, con le figure rappresentate quasi a grandezza naturale, ma disprezzava i colori sbiaditi dal tempo, i volti quasi scomparsi e talmente guasti da risultare inespressivi. In un’opera malridotta un po’ dappertutto, anche gli zoccoli dei cavalli di Napoleone avevano deturpato le gambe dei discepoli, quando il salone era stato ridotto a stalla. Ne aveva pure per la sala stessa, scambiata per una misera cappella adiacente, non sapendo di trovarsi nell’ex refettorio del Convento. Possiamo dargli atto che il dipinto aveva cominciato fin da subito a dare segni di deterioramento, complice l’ennesima tecnica difettosa sperimentata da Leonardo, ma va pure detto che da uomo intelligente qual era, mister Twain avrebbe dovuto sforzarsi di cogliere qualche valido particolare delle figure, delle posture, dello sfondo, invece di ostentare disinteresse.

Peste e corna anche dei ciceroni. Le guide turistiche? “Asini parlanti, ragli inutili”. Al diavolo per Twain anche quelli che riuscivano ad esprimersi in inglese. Il curatore del volume, Crescenzi, mette in risalto i sentimenti ambivalenti dello scrittore americano verso l’Italia. La sua ferrea concretezza non gli consentiva di tollerare l’atteggiamento degli italiani, a suo avviso troppo sprofondati nel loro passato fatto di rovine, e il patrimonio artistico lo infastidiva, si è detto. Pollice verso addirittura per la pasta italiana, più lusinghiero il giudizio sul buon vino e guai ai preti, “che non si può fare a meno di incontrare, fatti appena pochi passi per le strade”, scrive. Non potrebbe risultare più sprezzante l’atteggiamento contro la Chiesa, accusata di tenere bloccata l’Italia nei suoi ritardi secolari, “con la sua morsa religiosa”. Di confessione protestante, vedeva Roma, sede storica dei Papi, come un enorme mercato orientale di oggetti religiosi, una grande fiera di ciarlatani e truffatori.

La religione è la ricchezza della città, come il letame per la foresta. Il popolo è succube di una pretaglia che tiranneggia in modo parassitario la povera gente, legata ad un culto dei Santi idolatrico.

Condannava il commercio di reliquie fasulle e di false antichità, sbraitava per lo spettacolo di edicole votive e immagini sacre nelle strade, diventava furioso nel vedere esercitare quello che considerava un odioso sfruttamento della religiosità superstiziosa di fedeli ignoranti. Non parliamo di cosa scrive a proposito del miracolo di San Gennaro, “una delle più sciagurate imposture in cui ci si imbatte in Italia”. Metà della popolazione napoletana crede alle fandonie, l’altra metà non fa niente per convincere dell’assurdità di questi fenomeni. Eppure, le ragioni commerciali del miracolo sono sotto gli occhi di tutti: urla e preghiere invocano la liquefazione del sangue il tempo che serve a chi raccoglie le offerte di completare il giro ed esigere l’obolo dalla folla “di gente povera, molto più povera della testa d’argento del Santo”.


© Riproduzione riservata SoloLibri.net

Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: In questa Italia che non capisco

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