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Recensioni di libri

Alfabeto pirandelliano di Leonardo Sciascia

Un’insolita, non accademica, presentazione di Pirandello, che coinvolge e apre la mente a ulteriori spazi di approfondimento.

Federico Guastella
Federico Guastella Pubblicato il 25-05-2020
Alfabeto pirandelliano

Alfabeto pirandelliano

  • Autore: Leonardo Sciascia
  • Categoria: Saggistica
  • Casa editrice: Adelphi

Alfabeto pirandelliano, pubblicato da Adelphi nel 1989, anno della scomparsa di Sciascia, è un piccolo ma succoso libro, da cui si ricava pure quel che lo scrittore dice di sé, delle ragioni dello scrivere e della sua idea di letteratura.
Apparso nel 1986 come testo allegato al settimanale “L’Espresso” con il titolo Pirandello dall’A alla Z, con delle aggiunte presenta Pirandello non in maniera accademica, ma attraverso lemmi scandagliati con la maestria di chi possiede la materia e gli strumenti adeguati a trattarla.

Ci si trova dinanzi a brevi squarci di autentico spessore culturale, che, lasciando al lettore le opportunità di approfondimento, sanno comunicare aspetti di vita siciliana e italiana: trentatré le voci a mo’ di dizionarietto, individuate come pietre miliari per una trama che è insieme narrazione, descrizione, argomentazione.
Le sorprese non mancano, anche se gli argomenti si annodano con la precedente produzione saggistica su Pirandello.
Ecco, allora, il lemma “Abba”:

"Creatura, personaggio, attrice di inalienabile condizione pirandelliana: come del resto tutte le vite di coloro che con la vita di Pirandello hanno avuto a che fare. Vite vittime di cui Pirandello era vittima".

Sciascia la presenta servendosi della didascalia di Quando si è qualcuno, commedia scritta per lei, interprete privilegiata dei suoi personaggi femminili:

"È giovanissima e di meravigliosa bellezza. Capelli fulvi, ricciuti. Occhi verdi, lunghi, grandi e lucenti, che ora, nella passione, s’intorbidano come acqua di lago; ora, nella serenità, si fermano a guardare limpidi e dolci come un’alba lunare; ora, nella tristezza, hanno l’opacità dolente della turchese. La bocca ha spesso un atteggiamento doloroso, come se la vita le desse una sdegnosa amarezza; ma se ride, ha subito una grazia luminosa, che sembra rischiari e avvivi ogni cosa".

Così si legge quasi all’inizio del primo atto: è la descrizione della modella Tuda, dal cui corpo il giovane scultore Sirio Dossi trae ispirazione per una sua grande statua di Diana. Ma è anche il profilo di Marta Abba, da Pirandello a suo modo amata: in modo “casto”. E Sciascia, attenendosi a quanto detto dallo stesso drammaturgo, col piglio dello psicoanalista, precisa:

"… ma involgendovi tutto quel che di oscuro, di torbido, di impuro c’è sempre nelle scelte e affermazioni di castità".

Pirandello – si sa – è l’autore de Il turno, racconto lungo o romanzo breve dove divertita è l’osservazione dell’animo umano e i personaggi vi compaiono come macchiette a livello di un semplice godimento. Il turno concerne l’ordine del diventare marito di una bella ragazza. Il primo a sposarla è Don Diego Alcozèr: un vecchietto che da uomo di mondo ha già avuto quattro mogli dai cui spettri si sente perseguitato. Stando alla sua età abbastanza avanzata, dovrebbe morire presto, sicché, da ricchissima per la dote ereditata, la nuova consorte Stellina potrebbe poi sposare l’innamorato, il giovane e squattrinato Pepè Alletto. Ma, si sa, l’uomo propone e Dio dispone.
Deliziosa la descrizione che alla voce “Alcozèr” rivela pur sempre il gusto dell’investigazione. Terminologica, questa volta:

"Don Diego Alcozér: il vecchietto esile e tossicoloso, ma di spirito epicureo ed oraziano, che ha seppellito quattro mogli, ne prende una quinta giovanissima, se ne scioglie per sposarne un’altra non meno giovane. Sereno ragionatore, ma notturna preda dei fantasmi delle quattro mogli […]. E Alcozér si ha dapprima l’impressione sia nome trovato, nel ricordo di quel Giovanni Alcozér, poeta siciliano di cui si hanno vaghe notizie, a dare qualche riflesso di dongiovannismo al personaggio (e gli si accompagna il Diego per ispanizzante suggestione)".

Il riconoscimento della forza dell’inconscio è reso manifesto da Pirandello verso la fine del lungo saggio su L’Umorismo, dove afferma che nella personalità convivono diversi strati, di cui alcuni sono oscurati, cancellati, spenti dalla forza dell’oblio e quando affiorano mostrano di noi un altro essere insospettato. Quello che ciascuno conosce di se stesso è soltanto una minima parte e tanti altri stati di coscienza prendono inaspettatamente corpo, come se ci fossero più anime diverse e perfino opposte:

“I limiti della nostra memoria personale e cosciente non sono limiti assoluti. Di là da quella linea vi sono memorie, vi sono percezioni e ragionamenti. Ciò che noi conosciamo di noi stessi, non è che una parte, forse una piccolissima parte di quello che noi siamo. E tante e tante cose, in certi momenti eccezionali, noi sorprendiamo in noi stessi, percezioni, ragionamenti, stati di coscienza, che son veramente oltre i limiti relativi della nostra esistenza normale e cosciente”.

Quasi lo stesso brano si ritrova nella novella L’avemaria di Bobbio, raccolta in Novelle per un anno:

“Ciò che conosciamo di noi è però solamente una parte, e forse piccolissima, di ciò che siamo a nostra insaputa. Bobbio anzi diceva che ciò che chiamiamo coscienza è paragonabile alla poca acqua che si vede nel collo d’un pozzo senza fondo. E intendeva forse significare con questo che, oltre i limiti della memoria, vi sono percezioni e azioni che ci rimangono ignote, perché veramente non sono più nostre, ma di noi quali fummo in altro tempo, con pensieri e affetti già da un lungo oblio oscurati in noi, cancellati, spenti; ma che al richiamo improvviso di una sensazione, sia sapore, sia colore o suono, possono ancora dar prova di vita, mostrando ancor vivo in noi un altro essere insospettato”.

Sciascia puntualmente espone la novella e presenta il personaggio come "libero pensatore", "ma non al punto da essere libero dal suo cosiddetto libero pensare", cioè impermeabile al dubbio sulle sue certezze. Lo scrittore racalmutese conclude:

“La sua "suffisance" - e cioè, come dice Montaigne, "la sciocca presunzione di disprezzare e condannare come falso quel che non ci sembra verosimile" - non l’ammetteva”.

E se scorgessimo in questa annotazione l’apertura di Sciascia al mistero della trascendenza? È alla voce “Pascal” che l’agrigentino respira una sua religiosità:

"In quanto a Pirandello lettore di Pascal, e di segreta affezione, possiamo avanzare il sospetto, ma senza la minima prova: non c’è un Pascal, tra i suoi libri; ma nemmeno c’è un Montaigne, che pure ben conosceva e certamente amava […]. Invincibilmente, comunque, certi momenti della sua opera, certe fenditure da cui guarda gli abissi cosmici, certi – diremmo oggi - "buchi neri", ci richiamano a Pascal".

E ci sarebbe da fare un riferimento alla voce dedicata al fisico Majorana: un pirandelliano “uomo solo” che, da “pentito”, decide di scomparire dalla società e anche da sé stesso, per certi aspetti come ne Il fu Mattia Pascal.
Suggestioni, tracce, lampeggianti orientamenti si possono trovare in Alfabeto pirandelliano, un libro da leggersi come punto di partenza per un approfondimento del discorso su Pirandello.

Alfabeto pirandelliano (Piccola biblioteca Adelphi Vol. 235)

Amazon.it: 4,99 €

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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Alfabeto pirandelliano

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