I giorni di Vetro
- Autore: Nicoletta Verna
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Einaudi
- Anno di pubblicazione: 2024
La trama de I giorni di Vetro di Nicoletta Verna (Einaudi, 2024) si snoda tramite due piani narrativi, che riguardano altrettante protagoniste, Redenta e Iris, che si suddividono il ruolo di voce narrante e che attraversano il ventennio del fascismo, dal delitto Matteotti del 1924, giorno della nascita di Redenta, fino alla conclusione, nel 1945.
Le traiettorie personali delle due donne non hanno come fondo la Storia, ma al contrario sono anch’esse dentro la Storia: l’una è figlia di un reduce dalla campagna d’Etiopia e finisce per sposare Vetro - un ras fascista della Romagna chiamato così per via di una protesi a un occhio perso durante l’attentato al generale Graziani - il cui unico riferimento morale è il male; l’altra diviene partigiana in una brigata comandata da Bruno - figura che per intensità descrittiva si oppone a quella di Vetro - innamorato in adolescenza di Redenta.
Vetro è l’incarnazione fenomenologica del fascismo, ne rappresenta l’essenza:
“La violenza, diceva lui, era la linfa dell’Italia, la buona madre che li aveva nutriti e spinti fra le braccia della civiltà. Non poteva esserci ordine né progresso, senza violenza… la violenza è la persuasione del vostro Dio”.
La vita di Redenta, cui un attacco di poliomielite ha lasciato una permanente zoppia, evidente metafora del ratto che su di lei ha compiuto la vita, è costellata della violenza domestica, delle sevizie praticatele da Vetro, mentre, in parallelo, il regime fascista mostra il suo volto. Poi l’errore che sarà fatale a Mussolini: il legare il suo carro carnevalesco a quello funebre di Hitler, la storia sta per divenire tragedia. Scoppia la seconda guerra mondiale e Bruno è inviato sul fronte russo, dal quale con mille peripezie riesce a tornare in Italia per costituire, con il nome di battaglia di Diaz, una brigata partigiana alla quale si unisce Iris. I due giovani vivono una storia d’amore, o forse solo di sesso, tra la paglia, che sa di sterco e di urina, dei rifugi partigiani. Infine il piano per rapire Vetro, a cui Iris s’avvicina per offrirsi come amante, che finisce in una sparatoria...
Malgrado gli indubbi meriti del romanzo, del quale sentiremo molto parlare, un punto non secondario desta perplessità: la radice del fascismo è identificata nella mera malvagità; questa la catena deduttiva: il male esiste, la gente cattiva ha un’incidenza sul totale della popolazione rilevante, i cattivi in politica generano le dittature la cui cifra è la violenza. Vetro è l’archetipo della spiegazione del fascismo basata su questa linea interpretativa: di un sadismo patologico, violento fino al godimento del dolore del prossimo e persino necrofilo. Ma se le cose stanno così, non v’è da imparare nulla dalla vicenda: il fascismo esiste perché il male esiste, punto! In realtà, forse la questione è meno semplice: per farla breve, il fascismo è la risposta a una crisi, di valori prima, economica poi, come accadde dopo la Grande Guerra, come sta accadendo un po’ ovunque in Occidente, ai giorni nostri. Ogni crisi profonda getta dubbi sul razionalismo, sul calcolo, sull’utilizzo della logica, il mondo ridiviene preda del pensiero magico, della metafisica del popolo unito dallo stesso sangue, dell’irrazionalismo, della terra-è-piatta, dei vaccini-fanno-male, della narrazione del tramonto dell’Occidente, di questo e di quest’altro e le piazze si ripopolano di slogan che credevamo morti e i pifferai magici ricompiono sui balconi imbandierati. Il romanzo, invece, batte la pista della arendtiana banalità del male: esso è ovunque, è più vicino al bene di Dio stesso: anche l’altro dioscuro dell’opera, Bruno, è ritratto preda di impulsi indotti dal buio dell’anima e in questo è, paradossalmente, simile a Vetro.
“Il bene non sta esattamente dov’è istintivo collocarlo. Il bene a volte è una forma contorta e tortuosa di male, e il male è necessario, è un viatico per un bene più grande e incomprensibile”.
E le donne? Le donne ghettizzate, violate, rese plumbee dal rapporto di sudditanza nei confronti dell’uomo, salvo poche eccezioni, provano un brivido caldo ad accostarsi al male, a sparare, a vedere il sangue del nemico.
“Mi accanisco in particolare su chi cerca di fuggire: mirare alla schiena e vederli morire m’inebria, mi persuade finalmente che è la cosa giusta… la morte di quegli uomini mi dà pace, conforto, mi libera dal freddo che ho addosso da mesi. È sollievo”.
Anche nei rapporti con Vetro, le donne hanno un rancore velato di desiderio: provano un brivido a vedere brillare l’occhio di vetro di Vetro, la protesi del fascista è il regalo postumo che Redenta farà a Iris.
Il linguaggio dell’opera è lineare, soprattutto quando l’io narrante è Redenta, con periodi brevi e secchi, con poche incidentali ma fiorito con una grande messe di termini del dialetto romagnolo. Più dichiarativo è il registro di Iris, figlia di un’insegnante e insegnante lei stessa, ma è forse l’unico caso tra i personaggi del romanzo; il canone utilizzato potrebbe far storcere un po’ la bocca a chi pensi, con Roland Barthes, che il significante è un ulteriore manufatto rilevante a qualificare un’opera quanto il significato: ma non sarebbe stato ragionevole utilizzare una forma più ricca per ritrarre il dialogare del popolo di un secolo fa. Per cui, il linguaggio profuma del romanzo dell’ottocento, sa di verismo, più Mastro Don Gesualdo che I Viceré. Il risultato è un po’ Morante e un po’ Verga: La Storia scritta in vernacolo romagnolo, ma sicuramente un ottimo libro che ci farà discutere e, credo, anche litigare.
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