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Recensioni di libri

La chiesa della solitudine di Grazia Deledda

Edizioni Clandestine, 2017 - L’ultimo romanzo della scrittrice sarda Grazia Deledda, premio Nobel per la Letteratura nel 1926.

Graziella Atzori Pubblicato il 25-01-2023
La chiesa della solitudine

La chiesa della solitudine

  • Autore: Grazia Deledda
  • Genere: Classici
  • Categoria: Narrativa Italiana
  • Anno di pubblicazione: 2017

La chiesa della solitudine di Grazia Deledda (Edizioni Clandestine, 2017) è l’ultimo romanzo della grande scrittrice, premio Nobel per la letteratura nel 1926.

Scritto nel 1936, punto focale del racconto è il male allora assolutamente incurabile, il tumore, di cui non si deve neppure pronunciare il nome.
La parola ustionante non viene nominata neppure tra le mura domestiche dalla protagonista ammalata, Maria Concezione, 28 anni, bella, longilinea, sguardo da fata che attira pur non volendo molti uomini desiderosi di sposarla, anche per la sua eredità. La ragazza, sdegnosa e fiera, si reputa vecchia e soprattutto inguaribile e quindi non più degna di sposarsi. Le hanno asportato una mammella, cosa disonorevole agli occhi della società, nessuno deve saperlo. Tutti credono, eccetto ovviamente sua madre, che abbia trascorso venti giorni in ospedale per l’asportazione di un polipo al naso.

L’angoscia e la desolazione, le illusioni infrante, la depressione, descritta magistralmente, Grazia Deledda la provò realmente, anche lei colpita da un tumore.
Le risposte forti e vincenti sul destino che la protagonista riesce a trovare, dopo molto travaglio, sono, io credo, le stesse della scrittrice.
Il suo Verismo, anzi la sua verità, da meditare in solitudine autonomamente, stando sganciati dai condizionamenti ambientali, è del tutto opposta, antitetica al Verismo di Giovanni Verga. Quest’ultimo presenta i suoi personaggi come "vinti", e tali restano, imprigionati in modo ineluttabile dalla fatalità. E poiché ogni romanziere, creando una figura chiave, metaforizza, esprime se stesso e la condizione umana universale, per lo scrittore siciliano siamo sempre perdenti.

Grazia Deledda testimonia il contrario: il senso della vita sta, come per Alessandro Manzoni, nell’affidarsi alla Provvidenza; con la fede emerge la condizione vincente di ciascuno.
Concezione rischia di ripetere la tragedia della sua adolescenza, quando si innamorò, ricambiata, di un povero ragazzo senza mestiere, buttatosi tra le braccia della malavita; voleva diventare presto e facilmente ricco e sposare il suo amore. Finisce in mano alla giustizia; condannato per spaccio di monete false, si impicca in carcere.
Nella mente della giovane donna resta un senso tormentoso di colpa, il morto, "quell’altro", diventa un fantasma indelebile.

Concezione, benestante, si dedica alla beneficenza con cuore pietoso. È proprietaria della chiesetta sul monte e dell’attiguo piccolo appartamento, dell’orto, nonché di un conto in banca di diecimila scudi ereditati dal padre onesto, ma sono denari frutto di una ricchezza dei bisnonni di lei, conquistata con il brigantaggio.
Più brigante dei briganti era stato allora il prete derubato e torturato per sapere dove tenesse il capitale. il prelato rubava ai parrocchiani, si era costruito un palazzetto dove beveva e festeggiava allegramente e pretendeva il “diritto della prima notte”, ius primae noctis sulle ragazze da marito, come un signorotto medievale. A lei sembra ora che debba scontare un lascito di colpe antiche, diremmo, edotti dalla psicologia, facenti parti delle “costellazioni familiari”.

Concezione lavora come sarta da uomo. Conosce un giovane "forestiero", a cui prende le misure per sei camicie. Arnoldo, bellissimo e timido, è solo al mondo, viene dal nord, biondo, occhi azzurri, spaccapietre; fa parte delle maestranze giunte a Nuoro per costruire una strada. È figlio di nessuno, senza padre, la madre è stata abbandonata, morta presto di stenti nelle risaie. La sartina, pur amandolo con tenerezza e passione, lo respinge; considera il suo male segreto un impedimento insormontabile per costruirsi una famiglia. Arnoldo, debole, disperato e ignaro della cosa, comincia a bere, frequenta una donna pubblica, sorellastra di Concezione, e si taglia le vene. Ma non morirà.
È un pretino esile, don Serafino, tubercolotico, angelico (lui sì morirà), che dice messa nella chiesetta, a pronunciare le parole che innalzano il libro al di sopra del destino e ne fanno un capolavoro:

Ti ripeto, Dio è grande: la vita, la morte, la salute nostra sono nelle sue mani. Bisogna aver fede.

Tale visione muta il cuore di Concezione.
Alla fede cristiana, quella di Manzoni ma anche stoica, Grazia Deledda accosta una "Weltanschauung" di sapore gnostico, cara a Goethe, il quale nella figura di Mefistofele vede la potenza che vuole il male ma compie inevitabilmente il bene. Il male al servizio di Dio.
Concezione lo intuisce con chiarezza:

Su questa fede non cieca né fanatica, ma tranquilla e luminosa, le galleggiava sempre, come la ninfea su un’acqua trasparente, il fiore della speranza. Anche il suo male, forse, era un dono misterioso, che l’avrebbe preservata dal peccato e da altri dolori. Sia fatta la volontà di Dio.

Lasciamo i due innamorati alle loro scelte, che il lettore scoprirà. Accostiamoci a una Sardegna arcaica e arcana, ruvida, alle montagne di calcare nuoresi, severe come gli abitanti. Assistiamo a scene di porcellini arrostiti ma di cui si può anche addentare il cuore crudo ancora caldo appena la bestia è squartata, per acquisire coraggio e salute, secondo un antico rituale analogico. Vediamo le donne con i vasi di coccio portati in equilibrio sul capo per approvvigionarsi di acqua, come accade ancora in Africa.
È una terra dove mantenere la “parola data” è un punto d’onore. Sono elementi antropologici descritti a tinte forti, espressioniste. Il lirismo intenso, ma delicato e splendido è riservato alla natura.

Incredibile pensare che Grazia Deledda avesse un’istruzione scolastica di quinta elementare. Prima istruita in privato da precettori, poi autodidatta geniale. Del resto sommi artisti rinascimentali come Leonardo e Michelangelo non avevano una grande scolarizzazione, ma ispirazione immensa.
La scrittrice supera il timore atavico della morte esaltandola, le toglie l’abito nero e la riveste di luce. Lo fa con le parole di un vecchio flebotomo, medico senza laurea, poverissimo (saranno le sue cure e trasfusioni di sangue a salvare Arnoldo), molto dignitoso nei suoi abiti antiquati e i guanti bucati, anche lui beneficato da Concezione, che gli offre cibo senza farlo pesare.
Agnostico ma a modo suo credente, il vecchio saggio vede oltre la materia, e afferma:

Abbandonare il nostro corpo schifoso e volarsene fra le cose grandi, pure, eterne. Io non credo nel cosi detto Iddio, ma, insomma, morire è rientrare nella gioia dell’universo.

La Chiesa della Solitudine a Nuoro esiste realmente; proprio lì è sepolta Grazia Deledda.

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© Riproduzione riservata SoloLibri.net

Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La chiesa della solitudine

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