L’impossibile ritorno
- Autore: Amélie Nothomb
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Voland
- Anno di pubblicazione: 2025
È un appuntamento che scandisce ogni rentrée littéraire in Francia, con una costanza lunga oramai la bellezza di tre decenni: la stacanovista delle lettere francesi, Amélie Nothomb, ha da qualche settimana pubblicato, sempre nelle edizioni Albin Michel, il suo nuovo romanzo, Tant mieux, il completamento di un dittico iniziato col pluripremiato Primo sangue ma incentrato stavolta sulla figura materna (e che contiene, nel rispetto dello stile della scrittrice belga, parecchi elementi disturbanti, fra i quali una disumana strage di gatti!). Nell’attesa di vederne la copertina anche nelle librerie italiane, è L’impossibile ritorno (Voland, 2025, trad. di Federica Di Lella) l’ultimo suo volume edito dall’altra parte delle Alpi, un titolo da annoverare fra i suoi scritti autobiografici.
Partiamo da un apparente paradosso. Che pensare, se una scrittrice prolifica fino ai limiti dell’umano, produttrice di scritti a un ritmo da far invidia al quasi compatriota (almeno d’adozione) Balzac, in grado di sostenere presentazioni e file di fan chilometriche, conosciuta praticamente in ogni parte del globo, con comparsate onnipresenti in tv e nei festival, apparentemente instancabile, con una biografia fatta di spostamenti costanti fin dalla più tenera età, in grado di far fronte a questo mutare perenne e, almeno per qualche mese, come lei stessa ha raccontato in uno dei suoi romanzi più di successo, al rigidissimo sistema di vita giapponese, vi dicesse che, uno, non ama viaggiare e, due, pensa ogni giorno di non farcela? È quello che sostiene la Nothomb. Nelle primissime pagine del suo romanzo scrive:
Qualsiasi partenza è un’aberrazione. […] Per partire devo vincere un amore potente quanto l’inerzia. […] Partire mi appare sempre come una violenza. […] Il trauma è così forte che le mie tenebre interiori non credono al ritorno.
Invece, in quelle finali, sostiene:
Non ci riesco. È una frase che mi ripeto cinquanta volte al giorno, e non solo in terra nipponica. Però è proprio il paese del Sol Levante ad avermi insegnato questa sensazione terribile: non ci riesco. A fare cosa? Tutto, niente. A vivere in Giappone. A vivere.
L’autrice ci riflette raccontando di un viaggio imposto: Pep Beni, fotografa e sua amica, l’ha infatti trascinata dall’altra parte del mondo, in Giappone, terra mitica e magica che ha un ruolo di primo piano nella sua biografia. Per fortuna, l’epidemia di covid ha inizialmente collaborato con il desiderio di procrastinare l’evento, ma quando le limitazioni nel paese dell’estremo oriente si sono allentate e hanno permesso nuovamente i viaggi turistici, Amélie Nothomb non ha più avuto scuse da tirare fuori da uno dei suoi magnifici cappelli, e si è ritrovata a Roissy-Charles-De-Gaulle su un aereo in fase di rullaggio.
L’impossibile ritorno è certo il resoconto di questo viaggio. Che spasso leggere della non facile combriccola con Pep Beni, una compagna di viaggio che forse non tutti sopporteremmo fra la sua allergia agli acari, le reclamazioni incessanti in reception e le immense incapacità nel gestire la rete metropolitana della capitale nipponica, e che meraviglia provare a perdersi nello stupore che brilla dentro gli occhi della Nothomb, adepta dell’arte del kenshō, la trance di stupore di fronte alla bellezza. Ma questo titolo è soprattutto altro: è più in particolare un tentativo di comprendere come convivere con una nostalgia perenne, come superare il trauma della frammentazione della Pangea primordiale, che ci ha buttati tutti nell’angoscia di poter o dover chiamare casa un luogo lontano, e di dover trovare le forze di ritornarci subendone lo spaesamento.
La Nothomb ha una buona percentuale di Giappone nel sangue. Nei primi cinque anni della sua esistenza, ha creduto che quel paese in forma di arcipelago fosse il suo posto e, dopo un iniziale abbandono da straziarle l’anima, ha tentato di ritornarci, giovane donna in cerca di se stessa, per richiamarlo di nuovo a sé, fallendo. Come ha scritto in un corposo volume ancora inedito in Italia, Le Japon éternel. Voyage sous les fleurs d’un monde flottant:
La mia mitologia personale è il Giappone. I miei primi ricordi sono giapponesi. Mi sono creduta a lungo giapponese, con una profonda convinzione.
Se queste sono le premesse, vien da sé che ritornare in Giappone, per l’autrice, è sinonimo del ritorno in sé di ricordi e pezzetti del suo essere. Un viaggio come questo non può che diventare una nuova scrittura su un palinsesto già più e più volte ritrascritto: i templi e le strade del 2023 si scontrano e mischiano con quelli dell’infanzia, poi con quelli del viaggio fatto insieme al padre nell’89, e poi ancora con quelli di un ritorno, il più recente, in Giappone accompagnata da una troupe che l’ha filmata fra la massa di gente a Shibuya e negli altri incroci squadrati delle megalopoli nipponiche. Cosa è cambiato e cosa persiste? Quali occhi guardano il paesaggio: quelli della Nothomb di adesso o quelli della Nothomb bambina? E che succede alla lingua giapponese, fra singhiozzi in piena lallazione e parole che tornano dirette alle labbra pronte a essere pronunciate nelle asfissianti formule di cortesia giapponesi? E com’è che, rinunciando all’immancabile champagne, adesso l’autrice si è messa a tracannare whisky, in un tradimento ad alto tasso alcolico della sua irrinunciabile routine quotidiana?
La risposta sta forse nelle ultimissime pagine de L’impossibile ritorno, in una versione tutta nothombiana della massima di Nietzsche. Ma nessun lettore e nessuna lettrice si aspetti una risposta definitiva, una cartografia dettagliata della nostalgia, una panacea allo smembramento geografico e temporale; la massima più importante di questo libro, a mio personale avviso, sta a pagina 104, e recita:
Non ci capisco niente, per cui ne scrivo.
L'impossibile ritorno
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: L’impossibile ritorno


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