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Recensioni di libri

Il nocchiero di Paola Capriolo

Feltrinelli, 1989 - Il racconto più nebuloso della prima Paola Capriolo, in bilico com’è sulla voragine dell’illusorio, sospeso tra i morsi del fallimento esistenziale, manifestazioni inconsce e materializzazioni oniriche.

Mario Bonanno
Mario Bonanno Pubblicato il 06-04-2018

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Il nocchiero

Il nocchiero

  • Autore: Paola Capriolo
  • Genere: Horror e Gotico
  • Categoria: Narrativa Italiana
  • Casa editrice: Feltrinelli

“Il nocchiero” (Feltrinelli, 1989) è un titolo dalle molte suggestioni – oscure, mitologiche, dantesche –; anticipo di un romanzo altrettanto suggestivo: il romanzo di una dissipazione esistenziale, e d’altro canto di una reiterata ricerca di senso che diventa delirio e abbacinio ontologici. Paola Capriolo descrive Walter, pilota di un’imbarcazione dal carico sconosciuto (bestiame? prigionieri? fantasmi?), destinato alla Villa di un’isola altrettanto misteriosa -, una vicenda che può assumersi infatti come emblematica della condizione umana in relazione al suo significato escatologico. Walter è un uomo atterrato. Le trame imperscrutabili del caso lo hanno costretto a un ruolo anonimo, anti-carontico, (cioè anti-epico), impaludato com’è nella pedissequa reiterazione di gesti e prospettive.

“li aveva conosciuti ai liceo, prima che la morte del padre e il conseguente dissesto finanziario lo costringessero ad abbandonare gli studi e ad accettare quell’impiego di pilota così inferiore alle sue ambizioni... Ben altro aveva sperato negli anni della fanciullezza, quando non conosceva quasi la zona del porto e nulla sapeva di navi e di traffici mercantili. Ma il destino, si diceva, aveva voluto diversamente, e ormai per tutta la vita sarebbe rimasto il dipendente della Compagnia, l’esecutore di una mansione umile e oscura” (pp. 16-17)

Il romanzo è permeato per intero da un’aura di plumbea incombenza. Affacciato sulla voragine dell’annichilimento individuale, cui i personaggi soggiacciono in un modo o nell’altro. È il caso di Linda (che il Nocchiero sposerà in vece dell’amata Carmen), mite e sottomessa fino alla rinuncia al proprio sé. È il caso del Capitano, emissario di un Potere che lo sovrasta oltremodo. E di Walter - primo fra tutti, più di tutti - eponimo dello sconfitto, strumento di un ingranaggio inconoscibile, il cui destino è forse tracciato dalla kafkiana Compagnia per cui lavora. L’Entità/Stato garante di un ordine supremo mantenuto attraverso la reificazione dei soggetti che con Essa vengono a interagire.

“Navigava veloce, udendo solo il rombo assordante del motore che faceva vibrare le assi del ponte e animava di un tremito leggero i vetri del castelletto di poppa. Navigava senza guardare i villaggi schierati sulla riva a destra e a sinistra, le case con le imposte chiuse, con gli usci serrati, e gli alberi che si protendevano sull’acqua curvati dal vento. Era lo stesso paesaggio che contemplava dalla terrazza dell’Excelsior, eppure non era lo stesso. Non lo era perché lui non si trovava qui per contemplare, libero da legami, il filo della necessità lo trascinava sul fiume a compiere la sua mansione come trascinava gli uomini incolori che lavoravano nel porto. Quando fermava la chiatta di fronte all’isola Walter vedeva il parco secolare che la ricopriva, vedeva l’edificio in rovina dalle finestre murate che ancora lasciava indovinare l’antico splendore, ma lutto questo scorreva indifferente davanti al suo sguardo e lui pensava soltanto: «ecco la Villa. Sono arrivato alla meta»... Walter doveva attendere che un equipaggio di tre uomini prendesse in consegna la chiatta con il carico e gli affidasse l’altra, vuota, da riportare indietro” (pp. 17-18)

Il caffè dell’Excelsior è il più raffinato della cittadina portuale dove abita Walter (una città posseduta che sottotraccia nasconde i rantoli di innominabili creature. I bisbigli di entità segrete, di trame inconoscibili). All’Excelsior Walter si perde e si ritrova di frequente, da sognatore: proprio da un tavolo del caffè, scorge una sera, di là dal vetro, un braccio nudo di donna, per il resto occultata dallo stipite di una finestra. A dispetto (o forse in virtù?) del suo parziale rivelarsi, quella visione gli infilza l’animo come una malia: sulla scorta di quel fugace intravvedersi di dita, dell’insolito bracciale a spire di serpente che indossa, e del nome - Carmen - che ha appena udito bisbigliare, Walter finirà per immolare la sua vita. Contro ogni logica, persino contro ogni buon senso; con la stessa, illusoria, determinazione di colui il quale, destatosi al mattino da un sogno rasserenante, aspiri a ogni costo, a preservarne intatta la consistenza.

“A un tratto una mano di donna si protese sulla tovaglia verde. Le dita sottili e senza anelli presero a giocare con lo stelo di un bicchiere; vi si stringevano intorno e poi lo lasciavano, con un moto ritmico, regolare, come seguendo il dipanarsi di un motivo musicale. Il polso della sconosciuta era cinto da una lunga spirale di argento liscio che faceva pensare a un serpente. Lo stipite della finestra nascondeva la figura seduta, si vedevano solo la mano, il gioiello e il braccio nudo” (p. 11)

La tenebra che ammanta le pagine de “ nocchiero” è una tenebra di tipo lunare. Fantasmatica. “Il nocchiero” è un romanzo binario, in cui il piano metafisico e quello ontologico si combinano e si frantumano al contempo. I personaggi posti in essere da Paola Capriolo rivelano un’aura ectoplasmatica, da caligine. Anche nella fattispecie ci giungono da un passato nebuloso, mai esplicitato del tutto. Protendono, loro malgrado, verso direzioni ancor meno delineate, all’interno di contesti dai contorni a loro volta smarginati. Una costante di non-luoghi (non-mondi) fa da sfondo agli eventi (fantasie ipnagogiche o scaturigine dell’inconscio?), propaggine dell’atemporalità incerta del dormiveglia. Il (non)tempo mobile, estensibile, alterato, di un tempo senza storia. Questo è, sin qui, l’aspetto peculiare della narrativa di Paola Capriolo: la surreale messa in scena di un dramma dell’assurdo in cui gli attori si muovono e annaspano come sotto vuoto spinto; in un clima di indefinitezza senza soluzione di continuità. Anche “Il nocchiero”, a dispetto di un titolo che suggerirebbe vitalismo, mobilità, rimane invece invischiato in questa sorta di collosità esistenziale, di moti a luoghi rappresi, secondo i quali ritorna – a prescindere dalla direzione intrapresa – al vizio di partenza. Il labile pretesto del suo muoversi: l’immagine parziale di una donna evanescente (Carmen), divenuta abbaglio, ossessione, ragione di vita. Aldilà del surrogato sentimentale cui si aggrappa patologicamente, Walter-nocchiero risulta essere un uomo afasico, altro da sé, che confida sui fantasmi (Carmen che non ha mai realmente conosciuto, la Villa che non ha mai visitato, l’Isola in cui non è mai realmente approdato) finisce col diventare fantasma egli stesso. Un’apparizione inconsistente.
“Il nocchiero” rimane forse il racconto più nebuloso della prima Paola Capriolo. In bilico com’è sulla voragine – mentale, ideale – dell’illusorio. Sospeso tra i morsi del fallimento esistenziale, manifestazioni inconsce e materializzazioni oniriche. Il senso ultimo della vicenda è segnatamente ambiguo. Aperto. E per una volta da rivelare: e se il suicidio di Walter - nobile, quasi cavalleresco (si taglia le vene credendo di porgere il coltello alla mano dell’amata Carmen, imprigionata nella stiva dell’imbarcazione) non fosse piuttosto un omicidio? L’episodio è restituito dall’autrice come ambiguo, indeciso, di modo che gli spiragli metafisici della storia risultino non del tutto suturati, socchiusi fino in fondo.

“Spense il motore e si precipitò sul ponte. Dal boccaporto una voce di donna gridava qualcosa in una lingua incomprensibile. Walter si avvicinò. Le grida si erano mutate in una cantilena avvolgente che lasciava affiorare il coro delle altre voci. Rimase in piedi, a pochi passi di distanza, e guardò nella stiva. Il volto e la figura della donna erano nascosti nell’ombra. Più sotto, nell’oscurità, si intuivano movimenti agitati.
- Carmen?
Lei si interruppe un attimo, poi riprese a parlare. Il tono era dolce e disperato, le parole che pronunciava confluivano l’una nell’altra e Walter non riusciva a cogliere l’inizio né la fine.
- Cosa posso fare, Carmen?
Senza accorgersene si era accostato al boccaporto e stava in ginocchio dinnanzi alla grata. I suoni della stiva gli giungevano più distinti: erano suoni umani, frasi articolate in un linguaggio sconosciuto.
- Cosa vuoi che faccia? Lo sai che non posso agire diversamente.
Ora la donna tendeva verso di lui entrambe le braccia.
- Sono il nocchiero, Carmen, sono soltanto il nocchiero.
Lei gli afferrò le mani. Walter si ritrasse con un moto brusco. Una parola si era disegnata nitida nella sua mente, una parola che non aveva pensata.
Gli sembrò piuttosto fosse stata la donna a incidervela con quel breve contatto. Le braccia erano di nuovo protese verso di lui e Walter continuava a sentire dentro di sè, come ripetuta da un’eco, quella parola: ‘andarsene’.
Prese dalla tasca il coltello a scatto e lo diede a Carmen” (pp. 135-136).

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© Riproduzione riservata SoloLibri.net

Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il nocchiero

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