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Il tempo narrato (e altre storie brevi)

La rilettura di un romanzo, di un pamphlet e di un'opera teatrale diventa l'occasione per una ricognizione sul tempo narrato: veicolo straniante, atto interiore, attesa infinita; comunque un'ossimoro perché tempo pensato, non-fluido, non-spaziale.

Mario Bonanno
Mario Bonanno Pubblicato il 07-09-2016

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Il tempo narrato (e altre storie brevi)

Sto prendendo appunti sul Tempo. Mi servono per preparare il mio nuovo libro dove la musica sarà stavolta soltanto uno dei collanti paralleli. Non svelo di più: per adesso ciò che importa è che mi tengo informato sul Tempo. Accumulo spunti. Saggi. Pensieri. Storie sul tempo narrato. Tre di queste storie mi sono ri-apparse come miraggi, mirabili letture fuori dal tempo massimo degli uffici stampa, e dunque imperiture. Letture inattuali. Letture spesse, da comodino. Nel senso di tenere sempre a portata di mano, se mi sono spiegato.

Si tratta di due romanzi e di un’opera teatrale, che ha tutte le carte in regola per essere considerata un romanzo. Nell’ordine: “Il doppio regno” di Paola Capriolo, “La lentezza” di Milan Kundera e “Aspettando Godot” di Samuel Beckett. Li ho riletti da poco e mi sono sembrati fare al caso mio, in quanto parcellizzazioni diverse del concetto di Tempo (vissuto-subito-sospeso-temuto-declinato-fratto-assaporato-speculato).
Differenti espressioni di romanzo-mondo, assimilabili - dunque riconducibili - all’idea carsica del Tempo.
Il non-Tempo afasico, immobile, a un passo dall’eterno del romanzo di Capriolo, assumibile come grado zero percettivo, veicolo straniante, prodromico allo smarrimento del sé (o forse al suo ritrovamento?).
Il Tempo come atto interiore, recupero di un tempo deposto dall’attuale accelerazione, nel romanzo a un passo dalla propedeutica del pamphlet di Kundera; sbilenco sulla linea d’ombra tra passato e presente, commedia e tragedia.
Il Tempo, infine, come attesa infinita, sublimato e dissipato insieme, nel classico di Beckett, parabola universale sulla condizione umana rispetto al senso primo e ultimo dell’esistere.

Allargando il discorso per inciso: il Tempo dei libri (il Tempo delle storie nei libri), a pensarci bene, è un ossimoro. Si tratta pur sempre di Tempo costretto, pensato, non-fluido, non-spaziale, ri-condotto e rappreso alle pagine. Prigioniero seppure funzionale al racconto.
E quindi un Tempo strano per tre (strane) storie, per tornare alle mie storie.

La prima è quella di una donna anonima (non per caso) che tra i labirinti oscuri e rilkeianamente duali dell’Albergo in cui si è persa/rifugiata, ne “Il doppio regno” deve vedersela coi retaggi di un passato nebuloso e le sollecitazioni stranianti di un presente che forse esiste soltanto nella dimensione di suo sogno.
La seconda riguarda uno scrittore che attraverso il focus frastagliato di passato e presente assembla, ne “La lentezza”, svariate e variegate declinazioni sentimentali, ciascuna capitolo-pretesto di un discorso sul senso delle cose, della vita, dell’anima.
La terza riguarda, in ultimo, due sempliciotti qualsiasi (i Vladimiro ed Estragone di “Aspettando Godot”), smarriti tra il vissuto e l’ancora da vivere (il passato e il futuro), irretiti dai paradossi di un gioco ontologico più grande di loro che li abbacina, rendendoli emblematici degli esseri umani di fronte l’immanente.

Ho riletto questi libri a distanza di anni e ciascuno a suo modo mi ha parlato del Tempo, a dispetto del Tempo. Mi ci gioco un soldino che riuscirebbero a farlo con chiunque desiderasse ascoltarli. Per questo ne ho scritto, quasi tra parentesi, al limitare dell’ennesima estate che va a terminare.

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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il tempo narrato (e altre storie brevi)

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