Ciò che di me sapeste è un’opera del primo Montale, contenuta nella raccolta d’esordio Ossi di seppia (edita da Piero Gobetti nel 1925), eppure vi ritroviamo traccia della metafisica che contraddistingue l’ultimo Montale, l’autore della testamentaria Per finire (1972) e dell’indefinita Ex voto che sanciva la resa, nero su bianco, della poetica dell’inappartenenza.
In questa poesia giovanile troviamo una coincidenza inattesa tra le istanze cardine della lirica montaliana, ovvero il “male di vivere”, l’ostinata ricerca della “maglia rotta nella rete,” del varco espresso nel manifesto di poetica dei Limoni e l’inappartenenza, condizione necessaria alla realizzazione delle ultime raccolte montaliane in cui si verifica il passaggio dalla poetica dell’oggetto alla concezione dell’io metafisico che tenta di frantumare la superficie del Reale per comunicare con l’altrove.
Anche in Ciò che di me sapeste il poeta ligure attua la propria ricerca al di là della superficie, seguendo una tecnica di sdoppiamento. Le poesie di Ossi di seppia solitamente sono caratterizzate da un’attenzione peculiare rivolta verso gli elementi naturali: pensiamo alle caratteristiche del paesaggio ligure evocate in questi versi, dalle ripide scogliere alle case sul mare sino alle lucertole e agli alberi di limoni; a differenza di questa, nella lirica che prendiamo in esame il paesaggio assolato e arido è assente e Montale sembra prendere in esame soltanto i contorni indefiniti della propria oscura interiorità.
La realtà esteriore, dal poeta sovente denigrata e disprezzata, si sgretola per lasciare spazio alla “vera sostanza”, all’assoluto dell’anima nella quale davvero è riposta l’ultima ipotesi di salvezza.
In questi versi giovanili del poeta troviamo in nuce la tensione propria dell’ultimo Montale, ovvero il tentativo di dare vita all’invisibile. Vediamone testo, analisi e commento.
“Ciò che di me sapeste” di Eugenio Montale: testo
Ciò che di me sapeste
non fu che la scialbatura,
la tonaca che riveste
la nostra umana ventura.Ed era forse oltre il telo
l’azzurro tranquillo;
vietava il limpido cielo
solo un sigillo.O vero c’era il falòtico
mutarsi della mia vita,
lo schiudersi d’un’ignita
zolla che mai vedrò.Restò così questa scorza
la vera mia sostanza;
il fuoco che non si smorza
per me si chiamò: l’ignoranza.Se un’ombra scorgete, non è
un’ombra - ma quella io sono.
Potessi spiccarla da me,
offrirvela in dono.
“Ciò che di me sapeste” di Eugenio Montale: analisi e commento
Io non sono che un’ombra, questa la conclusione filosofica cui perviene il giovane Montale, all’epoca solo venticinquenne. Ciò che di me sapeste è una lirica che fa proprio lo sdoppiamento tra forma e apparenza, sino a giungere a mostrare la sostanza vera, assoluta e, tuttavia, invisibile delle cose.
Il poeta cerca di definirsi per sottrazione, spogliandosi di tutte le “maschere” impostogli dal vivere. Questo contrasto ritornerà spesso nella poetica dell’ultimo Montale, in particolare nelle liriche scritte verso la fine degli anni Settanta: in Chissà se un giorno butteremo le maschere veniva analizzata la mancata coincidenza tra maschera e viso, tra apparenza sociale e interiorità effettiva. L’uomo autentico, nei versi di Montale, assume le sembianze del solitario, del folle, del poeta, di colui che si trova ai margini. L’interiorità fedele a sé stessa è ciò che la società non riconosce, poiché agisce per sottrazione e non per addizione in una sorta di cortocircuito rispetto alle dinamiche quotidiane del vivere.
In questi versi inizia ad avverarsi l’affannosa ricerca di Eugenio Montale verso quel “niente che è tutto,” la consapevolezza (manifestata in Elegia) che la realtà in fondo non sia altro che una “fragile bolla di cristallo” e le percezioni umane siano illusorie (verità dimostrata anche nell’enigmatica Forse un mattino andando in un’aria di vetro).
In Ciò che di me sapeste il poeta riprende il dualismo metafisico esplicitato da Bergson e lo fa proprio, richiamando anche le parole cardine usate dal filosofo, prima tra tutte “ombra” che manifesta perfettamente l’opacità e la doppiezza ricercate per comunicare l’incomunicabile, ovvero l’animo informe. Proprio come Henri Bergson ricerca l’io profondo, in un mondo in cui i simboli si sostituiscono al soggetto, per affermare l’esperienza individuale della soggettività, così Montale in poesia tenta lo svelamento del proprio io autentico staccando la propria ombra da sé.
Il rapporto controverso tra io interiore e realtà esteriore è il tema cardine di questa poesia che articola la propria riflessione in quattro strofe. Nel finale l’io lirico constata di essere rimasto, per tutto l’arco della propria vita, nient’altro che un’ombra impersonale riflessa negli occhi degli altri: poiché nessuno l’ha conosciuto/visto davvero. L’apparenza sociale illusoria evocata attraverso una pluralità di immagini (“scorza, tonaca, tela, rivestimento”) viene sommamente espressa attraverso la metafora dell’ombra che, infine, il poeta immagina di poter regalare agli altri per mostrare il vero sé sotto forma di dono.
Questo tema del dono è proprio di Xenia (per gli antichi gli Xenia erano i “doni fatti agli ospiti”, Ndr), la sezione epigrammatica iniziale della raccolta Satura, in cui un Montale maturo cercherà di indagare il rapporto tra vita e morte intessendo un dialogo con l’aldilà dopo la scomparsa della moglie Drusilla.
Nei versi di Ciò che di me sapeste inaspettatamente il giovane Montale e il Montale anziano sembrano prendersi la mano e cedersi la parola a vicenda: c’è un’intuizione, in questi versi, che contraddistinguerà tutta la poetica montaliana, la certezza che la realtà non sia, come crede la gente, “quella che si vede”. Questo, del resto, era anche il grande insegnamento offerto dalla moglie Drusilla, detta Mosca a causa delle sue pupille “tanto offuscate”, espresso nella celeberrima Ho sceso dandoti il braccio.
Primo e ultimo Montale: analogie e differenze
La verità suprema era, in fondo, già contenuta nei versi di un Montale venticinquenne che, con una folgorante intuizione metafisica, si definiva “un’ombra” e rivendicava il proprio io interiore di fronte alla superficialità dell’io sociale. In questa poesia giovanile tuttavia il poeta ligure soccombe, come scrive, alla propria “ignoranza”, affermando la sua sconfitta dinnanzi al predominio sociale dell’apparire sull’essere: mentre nelle poesie più mature, da La Bufera e altro alle Occasioni, si verifica l’opposto e finalmente Montale permette all’Essere di trionfare in una visione metafisica - e trascendente - del mondo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Ciò che di me sapeste”: il testamento giovanile in poesia di Eugenio Montale
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