Il contrasto tra apparenza e realtà viene indagato anche dal poeta Eugenio Montale tramite l’allegoria della maschera di pirandelliana memoria. In una poesia intitolata Chissà se un giorno butteremo le maschere, l’autore interroga il dissidio tra interiorità e vita esteriore-sociale, giungendo a una conclusione non molto diversa da quella ipotizzata da Pirandello nel suo capolavoro Uno nessuno e centomila.
Il carnevale di Montale è il palcoscenico della vita in cui ogni individuo è chiamato, suo malgrado, a recitare una parte: l’uomo, afferma nel primo verso della poesia, indossa una maschera tuttavia “senza saperlo”.
Ritorna un tema ricorrente nella lirica montaliana, ovvero l’idea di una condizione esistenziale irrimediabile e drammatica che pesa sulle spalle del singolo individuo e non gli concede scampo, qui rappresentata dalla metafora della maschera dai tratti pirandelliani. Però Montale, a differenza di Pirandello, lascia intravedere uno spiraglio, una sorta di tensione liberatoria - sempre presente, del resto, nelle sue poesie come ne I limoni, “la maglia rotta della rete”, “la catena che non tiene” - la costante ricerca del varco: il varco è qui? come si domanda ne La casa dei doganieri.
In questa poesia l’ipotetico varco non è rappresentato da un luogo e neppure da un oggetto, ma dall’uomo in cui “viso e maschera coincidono”, l’individuo puro in cui non c’è infingimento. Ma esiste davvero un individuo immune all’eterno dilemma identitario? Il poeta ligure ipotizza di sì, ma in questo la sua conclusione non si discosta poi molto da quella pirandelliana.
La poesia Chissà se un giorno butteremo le maschere è contenuta nella raccolta Quaderno di quattro anni del 1977, una breve silloge di undici liriche che sfocia in una climax nichilista rappresentata dalla poesia In negativo secondo cui “tutto è nulla”. Anche in questa lirica ritroviamo l’attitudine contemplativa dell’ultimo Montale, la concezione di una vita assurda, senza scopo, che attraversiamo senza sapere dove siamo diretti né dove andremo. C’è tuttavia uno spiraglio in questo buio, in questa grigia indifferenza esistenziale, ed è rappresentato dalla poesia che ha il volto di una persona in cui “maschera e viso coincidono”. La parola poetica diventa il sortilegio, l’incanto salvifico in grado di annullare il contrasto tra realtà e apparenza mostrando la vita profonda, oltre la superficie.
Si tratta di un tema interessante da analizzare soprattutto nel contesto attuale del dibattito su social network e influencer. Siamo davvero pronti a buttare le maschere?
Vediamo testo e analisi della poesia.
“Chissà se un giorno butteremo le maschere” di Eugenio Montale: testo
Chissà se un giorno butteremo le maschere
che portiamo sul volto senza saperlo.
Per questo è tanto difficile identificare
gli uomini che incontriamo.Forse fra i tanti, fra i milioni c’è
quello in cui viso e maschera coincidono
e lui solo potrebbe dirci la parola
che attendiamo da sempre. Ma è probabile
che egli stesso non sappia il suo privilegio.Chi l’ha saputo, se uno ne fu mai,
pagò il suo dono con balbuzie o peggio.
Non valeva la pena di trovarlo. Il suo nome
fu sempre impronunciabile per cause
non solo di fonetica. La scienza
ha ben altro da fare o da non fare.
“Chissà se un giorno butteremo le maschere” di Eugenio Montale: analisi
La poesia ha la stessa andatura meditativa di Forse un mattino andando in un’aria di vetro, contenuta nella prima raccolta di Montale, Ossi di seppia (1925), che già presentava il tema della realtà illusoria e vuota intesa come “l’inganno consueto.” In quella precedente lirica il poeta immaginava di essere lui, in prima persona, a scorgere la verità delle cose con un “terrore da ubriaco” in una sorta di scoperta traumatica. In Chissà se un giorno butteremo le maschere invece il focus non è sulla realtà, ma sugli uomini che la abitano come burattini senza rendersi conto di trovarsi su un palcoscenico, di recitare una parte nello spettacolo. Sono gli uomini che obbediscono all’inganno consueto del reale e il poeta stesso si colloca tra loro, ma spera di incontrare - tra migliaia di volti fasulli - quell’unico reale che gli dia la prova di verità, di autenticità. Il varco montaliano in questa lirica è rappresentato proprio dall’uomo in cui “viso e maschera coincidono”; eppure, conclude il poeta, quell’individuo così raro, se esiste, non deve trovarsi in un buono stato mentale o fisico, lo immagina balbuziente o pazzo. La condizione di chi rifiuta l’identità sociale è quella di chi accetta di essere “nessuno”, proprio come nel romanzo di Pirandello, abdicando persino a sé stesso, al proprio nome. Montale esprime la condizione di “nessuno”, ovvero di annullamento, nell’idea del nome impronunciabile “per ragioni non solo di fonetica”. Chi non accetta di sottostare alle regole della recita sociale non esiste o, se esiste, viene relegato ai margini, diventa un reietto, uno scarto, un folle.
Torna, nel finale, anche la diffidenza di Montale nei confronti della scienza, già espressa in Fine del ’68 per cui gli scienziati si preoccupano di raggiungere la Luna senza risolvere i misteri e i guai della Terra. Allo stesso modo gli scienziati non interrogano il dilemma dell’identità né si premurano di curare chi, a causa di quel dissidio, impazzisce. La poesia dell’ultimo Montale si avvicina alla sua dimensione metafisica, come ne I miraggi in cui ipotizza l’inidentità come forza motrice - e distruttrice - del mondo:
“Solo l’inidentità / regge il mondo, lo crea e lo distrugge / per poi rifarlo sempre più spettrale / e inconoscibile”.
In Chissà se un giorno butteremo le maschere è ancora presente, tuttavia, una prospettiva salvifica e lo testimonia il verso “e lui solo potrebbe dirci la parola” che richiama la celeberrima Non chiederci la parola. La misteriosa “parola” cui fa riferimento Montale è la poesia che qui è rappresentata dalla metafora dell’uomo senza maschera. In quell’autenticità - nella figura del poeta, del solitario, del folle - è ancora possibile il vero inteso come fine dell’illusione, l’interiorità fedele a sé stessa, oltre la superficie del velo di Maya dell’apparenza. In fondo è nella poesia, nell’azione poetica, che Eugenio Montale identifica la vera caduta delle maschere, il “segreto” ipotizzato già in Forse un mattino andando in un’aria di vetro (1923) che qui coincide con la “parola che attendiamo da sempre”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Chissà se un giorno butteremo le maschere”: la poesia oltre l’apparenza di Eugenio Montale
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