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Per finire: la poesia testamento di Eugenio Montale

Una poesia breve, caustica, dell'ultimo Montale. “Per finire” (1972) è la lirica che chiude la raccolta Diario '71-72 e può essere letta come il testamento bruciante e polemico del poeta. Contiene infatti una raccomandazione ai posteri: un poco auto-ironica, ma con un fondo di verità.

Alice Figini
Alice Figini Pubblicato il 23-02-2023
Per finire: la poesia testamento di Eugenio Montale

L’ultimo Montale è il poeta dell’amarezza e del rifiuto, come ben dimostra la quarta raccolta poetica, Satura (1971), scritta in un linguaggio colloquiale, con un registro basso e ormai contaminato di quotidianità.
Dopo la morte della moglie Drusilla Tanzi, la cara “Mosca” cui è dedicato Ho sceso dandoti il braccio, il linguaggio poetico di Eugenio Montale cambia, subisce un rinnovamento stilistico allontanandosi dall’aulicità dei componimenti contenuti in Ossi di seppia (1925) e La Bufera e altro (1956). Meno allegoria e più realtà, questa la cifra dell’ultimo Montale che nella raccolta Satura, scritta dopo un lungo silenzio poetico, trova il proprio punto di svolta.

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In una delle poesie scritte negli anni Settanta, Per finire, il poeta premio Nobel sembra consegnarci il proprio testamento. Una manciata di pochi versi, scritta in un tono secco e stringato, destinata ai posteri cui il poeta chiede di non sublimare la sua biografia. Del resto, Montale aveva già preso le distanze dai “poeti laureati” nella sua celeberrima I limoni., in cui li descriveva mentre si muovevano impettiti tra le piante dai “nomi poco usati”; lui invece diceva di preferire le strade scoscese, le viuzze piene di pozzanghere e gli alberi aspri dei limoni.

In Per finire ribadisce il concetto, stavolta con maggiore asprezza, facendo un’affermazione auto-ironica e sferzante: lui, proprio lui, Eugenio Montale in persona dice “Non sono un Leopardi”.
Non sembra un tentativo di sminuirsi né uno slancio irrefrenabile di vittimismo, bensì un modo di dire le cose proprio come stanno - senza alcuna retorica - con un sarcasmo mite che, però, in fondo sa di verità. Deluso dal mondo moderno, dalla società industriale e capitalistica che trasforma tutto in merce, persino la poesia, dal “trionfo della spazzatura”, Montale trasforma la poesia in parodia e scrive un testamento poetico bruciante, caustico, salato, persino polemico.

Per finire è tratta dalla raccolta Diario ’71-72, edita da Mondadori nel 1973.

Scopriamone testo, analisi e commento.

Per finire di Eugenio Montale: testo

Raccomando ai miei posteri
(se ne saranno) in sede letteraria,
il che resta improbabile, di fare
un bel falò di tutto che riguardi
la mia vita, i miei fatti, i miei nonfatti.
Non sono un Leopardi, lascio poco da ardere
ed è già troppo vivere in percentuale.
Vissi al cinque per cento, non aumentate
la dose. Troppo spesso invece piove
sul bagnato.

Per finire di Eugenio Montale: analisi e commento

Come interpretare questo breve componimento? Di certo collocandolo nel suo preciso contesto: si tratta, come abbiamo detto, dell’ultimo Montale. La mano che scrive Per finire è stanca, guidata da una mente carica di ricordi, rimpianti e oppressa da amarezze ormai stagnanti come pozzanghere al sole. L’amarezza, in questo caso, sembra prevalere sulla speranza, così come il passato sul futuro.

L’incipit della poesia ricorda un po’ la formula della captatio benevolentiae manzoniana “I miei venticinque lettori”: con la stessa autoironia di Manzoni, ecco che Montale si rivolge ai posteri “se ne saranno” limitandoli alla sola sfera letteraria, e inoltre aggiunge “il che resta improbabile”. Come se oggi la biografia di Montale non la conoscessimo tutti a memoria sin dalle scuole medie: fatti e non fatti, persino le supposizioni.
Ebbene, in questa poesia Montale quella biografia sembra stracciarla, farla a brandelli, e si raccomanda di farne un bel falò. Diceva davvero? ci domandiamo ora basiti, leggendo questo sfogo inatteso da parte di un grande poeta che in questi versi appare semplicemente un uomo annoiato, un uomo stanco. Per finire è infarcita di termini ed espressioni colloquiali che non ci aspetteremmo di trovare in una lirica di Montale, come “non aumentate la dose” e “piove sul bagnato”; ma per quanto si ispiri al parlato colloquiale il poeta di “Ossi di seppia” tradisce i riferimenti colti, come l’altisonante “ai miei posteri” (che rimanda al 5 maggio di Manzoni) e il richiamo a Giacomo Leopardi.
In questi versi brevi e aspri Montale sembra presagire ciò che diverrà un giorno la sua biografia sui libri di scuola: ovvero un mero susseguirsi di luoghi comuni, come ribadisce l’espressione finale che non è affatto messa per caso “piove sul bagnato”.

A questo vilipendio futuro della sua esistenza il poeta si oppone con ferma convinzione e lo fa con classe, scendendo dal piedistallo, sminuendosi. La sua vita, ribadisce, è stata soltanto la vita di un uomo.

Vissi al cinque per cento, non aumentate la dose.

Rimpicciolendo sé stesso, la sua persona, la propria biografia di fatti e nonfatti, Eugenio Montale innalza la sua poesia. Nel suo caustico testamento, cui ha posto il titolo intenzionale di un congedo letterario “Per finire”, Montale chiede a noi lettori - e alle generazioni future - di concentrarsi ancora una volta sull’essenza. Sembra essere un componimento ironico e sarcastico, in realtà dice tutto, parla la stessa lingua del capolavoro I limoni: non badate all’apparenza, cercate “l’anello che non tiene”, ovvero la presenza spirituale, intangibile, oscurata dalla realtà opaca del vivere (il varco è qui?).

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