La sera del 12 settembre 1981 ci lasciava un grande poeta della nostra letteratura, Eugenio Montale. Il premio Nobel si spense nella casa di cura milanese San Pio X, in via Francesco Nava, dove era da tempo ricoverato. Montale morì un mese prima di compiere 85 anni (li avrebbe compiuti il 12 ottobre successivo, Ndr), i suoi funerali sarebbero stati celebrati il 14 settembre in una solenne cerimonia di Stato tenutasi presso il Duomo di Milano.
Lo ricordiamo con una poesia inedita, Elegia, che doveva essere inserita nella prima raccolta poetica Ossi di seppia, ma all’ultimo fu scartata. Questo scritto riemerse tra le carte del poeta solo dopo la sua morte, scoperto dall’amico Silvio Ramat, e ora è contenuto nel volume postumo Altri versi e poesie disperse (Milano, Mondadori 1981).
Si tratta di un testo giovanile, che riporta in calce la data del 26 gennaio 1918. Quando scrisse Elegia, dunque, Eugenio Montale aveva solo ventidue anni; ma in questi versi troviamo già il pensiero del Montale maturo, il suo dualismo metafisico, il rapporto conflittuale tra apparenza esteriore e vita interiore: nel mondo tendiamo a esibire un “io sociale”, ma che ne è del nostro “io profondo”?
Montale in questa lirica fa riferimento a una “finta realtà”, cui contrappone una dimensione spirituale. In quella dimensione altra forse si sopravvive, come osserva il poeta con un verso che oggi sembra attraversare il tempo, lo spazio e le epoche:
Noi forse resteremo
Nella sua celebre poesia testamento, intitolata Per finire (1972), Montale raccomandava ai posteri di fare un “bel falò di tutto ciò che mi riguardi”. Lo scriveva per ricordare a tutti noi lettori di concentrarci sull’essenza, sull’“anello che non tiene”, di disbrogliare il filo che ci metta nel mezzo di una verità.
Per fortuna il testamento letterario di Montale non si è avverato, nessuno ha disperso le sue poesie, anzi, possiamo anche contare sulla riscoperta di alcuni capolavori nascosti. “Noi forse resteremo”, scriveva profeticamente Montale in Elegia: e senza dubbio lui è rimasto, ritroviamo intatta la forza della sua voce poetica.
Scopriamo testo e analisi di Elegia, la poesia “ritrovata” di Montale.
“Elegia” di Eugenio Montale: testo
Non muoverti.
Se ti muovi lo infrangi.
È come una gran bolla di cristallo
sottile
stasera il mondo:
e sempre più gonfia e si leva.
O chi credeva
di noi spiarne il ritmo e il respiro?Meglio non muoversi.
È un azzurro subacqueo
che ci ravvolge
e in esso
pullulan forme imagini rabeschi.
Qui non c’è luna per noi:
più oltre deve sostare:
ne schiumano i confini del visibile.Fiori d’ombra
non visti, immaginati,
frutteti imprigionati
fra due mura,
profumi tra le dita dei verzieri!
Oscura notte, crei fantasmi o adagi
tra le tue braccia un mondo?Non muoverti.
Come un’immensa bolla
tutto gonfia, si leva.
E tutta questa finta realtà
scoppierà
forse.
Noi forse resteremo.
Noi forse.
Non muoverti.
Se ti muovi lo infrangi.Piangi?
“Elegia” di Eugenio Montale: analisi e commento
Nei versi di Elegia ritroviamo condensato un pensiero caro a Montale, il tema del dualismo metafisico, espresso anche in altre poesie come Non chiederci la parola, Ciò che di me sapeste o Forse un mattino andando in un’aria di vetro.
Nelle poesie montaliane la realtà si sdoppia, il pensiero va oltre la superficie piana delle cose. In Ciò che di me sapeste (sembra una poesia testamento, ma è contenuta in Ossi di seppia, Ndr) il poeta osserva che ciò che gli altri conoscono di lui non è che la “scialbatura”, una scorza, mentre il suo vero essere è custodito nella materia evanescente, impalpabile della sua ombra. Ed è quell’ombra la sua vera essenza, quell’ombra che in Ciò che di me sapeste ci offre in dono attraverso la poesia:
Se un’ombra scorgete, non è
un’ombra - ma quella io sono.
Quella di Montale, come osserva lui stesso in Satura, è una poesia di inappartenenza. All’esteriorità il poeta associava la medesima qualità negativa dell’ignoranza. Ritorna così il mito della caverna di Platone, in cui viene narrata la teoria delle Idee secondo cui esiste una realtà apparente e poi un mondo intelleggibile, che è appunto il mondo delle Idee, fatto di realtà eterne e immutabili, che si contrappongono al mondo sensibile.
È a questo dualismo che il poeta fa riferimento quando in Elegia dice che prima o poi “tutta questa finta realtà scoppierà” come una bolla. Ritornano anche i termini consueti del lessico montaliano: il poeta non parla di “un’aria di vetro” come in Forse un mattino andando, ma di una bolla di cristallo, ritorna il tema dell’aridità, della durezza della realtà e quindi della “divina indifferenza” manifestata in Spesso il male di vivere.
Ritorna inoltre il riferimento all’acqua, a quel mare onnipresente che fa da sfondo a tanti componimenti del poeta ligure: Montale parla di un “azzurro subacqueo”, di confini che schiumano e dunque sono fluidi, infrangibili, membrane permeabili, tutto sembra muoversi come l’acqua e mutare la sua forma.
Infine Montale immagina che la bolla della realtà sensibile possa scoppiare e rivelare, così, il vero: curioso notare che a questa fine del mondo metafisica il poeta associ il pianto del suo interlocutore, dunque le lacrime, di nuovo acqua che sgorga e fluisce.
In Elegia il poeta si rivolge con schiettezza a un “tu”, non meglio specificato, e lo ammonisce: “se ti muovi lo infrangi”. Ma cosa deve infrangere il suo interlocutore? Il mondo delle illusioni, evocate nei “fiori d’ombra, non visti, immaginati”.
Montale avverte tutta la precarietà della realtà che non è semplicemente così come appare, la sua poesia trae origine dall’abisso, dalla vertigine che solo lui riesce a scorgere nell’apparente banalità del quotidiano.
Oltre lo schermo illusorio del mondo rimane l’attesa di qualcosa di improvviso che possa finalmente cambiare la condizione dell’uomo; è questa la costante ricerca di Eugenio Montale e della sua poesia di inappartenenza, il tentativo di trovare l’anello che non tiene, la maglia rotta nella rete, il punto di fuga: il varco è qui?. La poesia montaliana ci ha insegnato a cercare un oltre, a inseguire un altrove.
La bolla che scoppia in Elegia è la metafora della morte, intesa come fine del mondo sensibile, delle apparenze vane. Pensare che il mondo, la vita stessa, in fondo non è che una fragile bolla di cristallo, è una riflessione profonda, vertiginosa, che può essere fatta solo da chi, come Montale, non crede all’“inganno consueto” e attende invano un “miracolo” che sa che non lo salverà. Esiste un altrove sotto la superficie, un oltre la cui esistenza è tutta da dimostrare. E di nuovo torna, come sussurrata, la domanda eternamente sospesa: il varco è qui?
E tutta questa finta realtà
scoppierà
forse.
Noi forse resteremo.
Noi forse.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Elegia” di Eugenio Montale: la poesia ritrovata dopo la morte del poeta
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