

Cosa resta oggi dell’ultimo Montale? Pochissimo o niente. Qualche saggio breve o qualche nota critica scritta in accademiese!
I poeti e le poetesse oggi sono post-montaliani, forse alcuni/e senza aver assimilato pienamente l’ultimo Montale. Ma questo accade anche in altri ambiti, in cui si è post-fascisti, post-democristiani o post-comunisti senza aver mai fatto veramente i conti con il fascismo, il comunismo, la Dc.
Montale “fuori dalla storia”: il rifiuto già negli anni Settanta
La parola d’ordine per svariati motivi era lasciarsi alle spalle Montale. Lo esigeva il gruppo 63, lo esigevano i neosperimentali, lo esigevano i marxisti, lo esigeva il neo-orfismo etc. Montale doveva essere messo nel “museo” delle patrie lettere.
Alcuni italiani andarono in guerra con i libri di Ungaretti e di Montale negli zaini, ma quei tempi erano ormai passati. Montale aveva fatto scuola stilisticamente con il suo descrittivismo paesaggistico, con i suoi correlativi oggettivi, presi da Eliot, che poi però aveva abbandonato. Già negli anni Settanta, comunque, doveva avanzare il nuovo in un Paese politicamente contrassegnato dal solito vecchio che avanza, da un immobilismo, da un gattopardismo, che sembravano eterni: niente corsi e ricorsi, bisognava rompere definitivamente gli schemi, almeno in poesia, per poi cercare di essere incisivi nella realtà.
E poi Montale era stato testimone e interprete di un mondo, di un’epoca, che bisognava lasciare alle spalle. Monterosso, il caffè “Le Giubbe Rosse”, il Gabinetto Vieusseux, “le stalle di Augia”? Erano roba datata, da passatisti. Montale si collocava “fuori della storia” e indossava sempre un “abito borghese”. Era il poeta celebrato per antonomasia. Già a scuola si insegnava la triade Ungaretti-Saba-Montale e si considerava il poeta un protagonista indiscusso del Novecento italiano.
Montale: un padre che doveva essere ucciso
Fu così che alcuni laureati lo contestarono quando fu fatto senatore a vita, e lui rispose con ironia che il bandolo alla sua matassa non lo aveva mai sbrogliato. La sua era un’ignoranza socratica di fronte all’inesauribile molteplicità fenomenica, al noumeno che non poteva cogliere, insomma a quello che Gadda definiva lo “gnommero”. Come scriveva lui stesso, c’erano i filosofi dell’omogeneo e quelli dell’eterogeneo, ma nessuno poteva essere certo di niente.
Di fronte a una realtà di cui era impossibile cogliere il senso ultimo, Montale non poteva che affermare che forse la “vecchia serva analfabeta” ne sapeva più di lui. Ma per quanto il poeta aveva a cuore l’umanità e i suoi problemi, per alcuni era un gerontocrate reazionario e arrivato, come fece capire in un suo componimento il bravo Attilio Lolini.


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Montale era un padre, che doveva essere ucciso: il complesso edipico e anche quello letterario dovevano essere risolti, superati. A livello stilistico la poetica degli oggetti e delle agnizioni degli Ossi di seppia ha certamente lasciato un segno indelebile nella poesia contemporanea italiana. Il poeta Andrea Temporelli ha definito però l’ultimo Montale un “poeta stravaccato”. Per il critico Giorgio Linguaglossa l’ultimo Montale ha causato danni alla poesia contemporanea italiana, portandola alla crisi irreversibile. C’è sicuramente del vero. Ma la questione non è tanto Montale, ma com’è stato percepito. Croce scriveva che il problema non era se Hegel era morto, ma sapere ciò che di Hegel era vivo e morto in noi.
L’ultimo Montale e la crisi della sua poesia
È vero che Montale negli ultimi anni era un uomo, un intellettuale e un poeta in crisi (non si riconosceva più nella società di massa, doveva rielaborare il lutto della moglie etc), ma nel pieno della sua crisi riuscì ad avere non più intuizioni liriche come negli Ossi di seppia ma intuizioni filosofiche, metafisiche, culturali, esistenziali notevoli. In molti componimenti riesce nella ristrutturazione cognitiva, giunge a delle illuminazioni interiori, a delle folgorazioni mentali.


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È vero che lo stile dell’ultimo Montale è più “basso”, prosastico, ma non è stato colto a pieno dai più l’elevato spessore gnomico delle sue ultime raccolte. In fondo quando si critica senza se e senza ma Montale, da Satura in poi, bisognerebbe anche ricordarsi che il poeta cambiò registro dopo anni di silenzio: segno evidente che meditò a lungo prima di dare una svolta decisiva alla sua poesia. Oggi alcuni autori recuperano l’iter creativo dell’ultimo Montale, cercando e talvolta trovando l’insight nelle clausole finali dei loro componimenti. Costoro raccolgono in parte il buono dell’eredità montaliana.
In fondo le ultime raccolte di Montale non sono altro che un testamento, come scriveva Zanzotto. Il problema di fondo è che molti hanno rinunciato all’eredità del poeta, non cogliendo a pieno la spiritualità di un uomo non religioso, che si chiedeva cosa fosse la verità alla fine e come rapportarsi a essa.
La questione è che lo scetticismo montaliano può sfaldare le certezze anche dei lettori più colti: meglio quindi leggicchiarlo, considerare quei componimenti impoetici, non interrogarsi sul mistero della vita e del mondo, come fa negli ultimi versi Montale. Il lascito del poeta non è l’espressione sic et simpliciter dell’erlebnis: nel suo diario in versi non ci sono appunto solo effemeridi autobiografiche. Una chiave di lettura fenomenologica sarebbe riduttiva.
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Il pensiero poetante nell’ultimo Montale
Grandi critici come Angelo Jacomuzzi studiano il rapporto tra lingua e realtà, pongono l’accento sul “mezzo parlare” di fronte a un mondo incomprensibile e a un Dio che, se c’è, è senz’altro innominabile. È vero che Montale, da Satura in poi, non cerca formule definitive, ma la sua ultima poesia, che ha ottenuto minor consenso e minore attenzione, ci dà modo di capire molto di più sulla sua poetica e sulla sua visione del mondo, perché se negli Ossi di seppia trovava simboli, nei suoi ultimi componimenti trovava compiutezza ed esplicitazione il suo pensiero poetante. L’ultimo Montale non è un semplice corollario ma il completamento e l’inveramento di tutta la sua intellettualità.
Inoltre è proprio da Satura in poi che Montale, più che esprimere e rappresentare la sua crisi, esprime e rappresenta la crisi dell’uomo occidentale novecentesco. Non solo, ma da Satura in poi poesia, memoria e filosofia si intrecciano mirabilmente. Il poeta è sospeso: da un lato la cosiddetta poesia d’inappartenenza, dall’altro il distacco dalla moglie, la sua perdita, il dolore che vengono vissuti, attraversati, sublimati, fino a chiedersi chi siano i morti e i vivi, fino a chiedersi se siamo già tutti morti senza saperlo. Il poeta negli ultimi anni è prima di tutto gnoseologico e sospende il giudizio, esercita sempre l’epoché. Troppo disfattista perché è un nichilista senza nichilismo, uno stoico che non vuole partecipare attivamente alla polis! Il poeta era senza Dio? Non ci credeva? Diciamo che credeva nelle agnizioni, nelle “divinità in incognito” (titolo di una sua poesia), che davano un brivido, dicevano tutto in un attimo, causavano un’epifania per poi involarsi irreprensibilmente.
Ma il poeta non era certo neanche di questo: era Arsenio, ma apparteneva anche agli “uomini che si voltano” e vedono il Nulla. Montale, con la sua interrogazione metafisica, non offre certezze ma solo dubbi. Il poeta non è certo di esistere né di sapere. E allora cosa poteva restare? Almeno da Montale bisognerebbe imparare la sua ironia che diventa parodia, il suo pirandellismo conoscitivo, che non lo porta mai alla rassegnazione totale perché non si scompone mai e resta impassibile.
Certo un difetto Montale ce l’aveva: aveva un atteggiamento snobistico, aristocratico, moralista, ieratico. Da questo punto di vista era un uomo di cultura del suo tempo. Ma ciò non toglie che da Satura in poi abbia scritto delle sentenze geniali. Alcuni sono suoi manieristi, suoi epigoni, ma non hanno la sua statura intellettuale, il suo spessore culturale e si ergono a giudici del mondo senza avere chiavi interpretative adeguate: imitano la sua postura autoriale senza averne l’intelligenza critica, la creatività feconda. Come ho già scritto, il poeta era un borghese, per quanto antifascista e critico del sistema. Questa sua identità sociale e di classe non è mai stata vista di buon occhio da molti letterati, di estrazione borghese ma di formazione comunista, che rinnegavano le loro radici e pensavano all’egemonia gramsciana e a essere intellettuali organici. Così come oggi Montale non va bene ai pasoliniani e ai sanguinetiani.
Insomma erano molte le ragioni per rompere con Montale, per considerarlo retrò, datato, per antologizzarlo, studiarlo, citarlo e poi archiviarlo, dimenticarlo, rimuoverlo definitivamente. Montale ha segnato un’epoca. Ma insomma gli autori contemporanei guardano altrove. Forse a torto, forse a ragione.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Cosa resta oggi dell’ultimo Montale? La poetica degli ultimi versi e la loro ricezione
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