

Si fa un gran parlare in poesia e in letteratura del rapporto tra chiarezza e oscurità, tra semplicità e complessità. Il rapporto è molto controverso e problematico. Ci sono diverse scuole di pensiero. Da una parte si rischia di cadere nella banalità, dall’altra con l’intenzione di restituire la complessità del mondo talvolta si complicano anche le cose semplici, perdendo di vista l’essenziale, finendo negli intellettualismi o nell’idioletto. È molto difficile trovare un equilibrio, che è sempre precario. Ma chi può dire se questo equilibrio è stato raggiunto? Tutto ciò è relativo, controverso, discutibile. Non esistono riscontri oggettivi. È tutto soggettivo, specialmente oggi che si sono gradualmente dissolti i canoni estetici di un tempo. Oggi non c’è niente di certo in poesia, in letteratura. Esiste però la comunità letteraria, ma un’opera può avere pareri critici discordanti.
Ma procediamo con ordine, cercando di analizzare la spinosa questione in modo sintetico.
Perché si scrive?
Innanzitutto si può scrivere per fare chiarezza dentro noi, per fare luce in noi. A volte c’è un poco di confusione o un poco di combattimento in noi e allora si butta giù qualche riga per chiarirsi le idee o per riappacificarsi con noi stessi e/o con il mondo. Scrivere significa allora approfondire, cercare un poco di verità in sé stessi, nei propri pensieri. Scrivere è prima di tutto una presa di coscienza della notte che sta attraversando il nostro animo e non solo, ma anche tutto il mondo.
La relazione dialogica però, per dirla alla Buber, è una necessità di chiunque.
La chiarezza può essere sia un mezzo che un fine. Un professore universitario può essere più chiaro per spiegare meglio agli studenti delle nozioni (mezzo), ma può anche scrivere un saggio per cercare di offrire delucidazioni e quindi fare chiarezza su una questione controversa (fine). Un messaggio, un testo non possono essere compresi
- 1) perché l’emittente non si sa spiegare o non vuole spiegare bene.
- 2) perché il ricevente non sa comprendere o non cerca adeguatamente di comprendere.
Da un lato quindi ci sono la capacità e lo sforzo di spiegare dello scrivente, mentre dall’altro la capacità e lo sforzo di comprendere del lettore. Da un lato abbiamo le capacità verbali e concettuali dello scrivente, mentre dall’altro le competenze testuali del lettore. Di conseguenza ci possono essere errori sia nella codifica che nella decodifica, considerando anche che nel testo scritto, a differenza della conversazione, non ci sono il feedback, né la metacomunicazione.
Autori a favore della chiarezza:
Popper: “Niente è così facile che scrivere difficile”; “la chiarezza espositiva non è un dono di pochi, ma deve essere un dovere per tutti.”
Carver: “niente prosa dai vetri appannati” (i vetri appannati talvolta li hanno gli autori, talvolta i lettori)
Einstein: bisogna semplificare senza ipersemplificare.
Riguardo allo stile militante o divulgativo Bertrand Russell, Chomsky, Popper, Alfonso Berardinelli, Manacorda, Indro Montanelli, Beniamino Placido, Italo Calvino, Enzo Biagi, Sergio Zavoli, Vittorio Sgarbi, Vittorino Andreoli, Paolo Crepet, Franco Cassano, Umberto Galimberti, Michela Marzano, Piergiorgio Odifreddi, Emanuele Severino, Francesco Alberoni, Massimo Piattelli Palmarini sono chiari, comprensibili, divulgativi, eppure sono grandi intellettuali.
Autori a favore della complessità:
Emily Dickinson: “Dì la verità, ma dilla di sbieco”.
Mario Luzi: la parola deve volare alta e raggiungere lo zenit della significazione
Coloro che fanno parte della seconda scuola di pensiero vogliono con i loro scritti restituire e rappresentare la complessità del mondo. Vogliono perseguire l’esattezza e la molteplicità fenomenica delle lezioni americane di Calvino. Vogliono rappresentare lo gnommero come Gadda, vogliono sbrogliare la matassa come Montale. Eppure molti ricercano parole ricercate, desuete, forbite con cui pensano di fare poesia. Talvolta per descrivere una cosa, un aspetto della realtà bisogna anche usare una terminologia specifica, che non tutti conoscono. Per descrivere accuratamente una fragola bisogna usare anche il termine picciolo, che non è comune.
L’esattezza o quantomeno l’accuratezza espressiva talvolta può essere chiarezza, ma talvolta un lettore può non disporre di sufficienti competenze testuali per capire quelle parole, quei periodi. Comunque talvolta si può scegliere tra diversi vocaboli e spesso i letterati scelgono il termine più difficile. Non a caso Flaiano scriveva che la linea più breve tra due punti in Italia era l’arabesco, il ghirigoro. Ecco il birignao degli intellettuali! Ecco gli intellettualismi e le astruserie!
In Italia è quasi una colpa essere chiari. Abbiamo quindi questi due poli: esoterismo/essoterismo, linguaggio criptico, linguaggio chiaro. Bisognerebbe chiedersi se uno scritto però si rivolge a tutti oppure a un pubblico di letterati ad esempio? Si può essere oscuri perché si dà troppo per scontato delle cose, perché non si vuole o non si può scrivere tutto. In questi casi l’implicito e il non detto hanno il sopravvento. La mancanza di comprensione di un testo può dipendere anche dalla cultura di appartenenza, come in un racconto di Borges, in cui Averroè non sa cosa siano la commedia e la tragedia, commentando Aristotele.
L’utilizzo di parole difficili e desuete nella poesia contemporanea
Uno dei molti motivi per cui la poesia contemporanea non è letta è perché ritenuta troppo difficile. Non è il motivo principale, ma è una delle ragioni. Inutile mentire o arrampicarsi sugli specchi. Inutile negare la realtà, l’evidenza dei fatti.
Pasolini parlava di “codice classistico della selezione linguistica” in una sua intervista e del fatto che lui ad esempio nella prima poesia scritta da bambino avesse usato le parole rosignolo e verzura, senza sapere cosa significassero.
Maria Luisa Spaziani ha confessato che in alcuni casi Montale non sapeva riconoscere certe piante, che però nominava nelle sue poesie.
Zanzotto sosteneva che in poesia vige “l’eterogenesi dei fini”: si cerca di esprimere una cosa e se ne esprime un’altra; il risultato definitivo non è mai l’obiettivo prefissato. Intendiamoci: in poesia parla anche l’inconscio, l’Es. Ma i poeti scrivono stelo e non gambo, perché devono scrivere in un linguaggio aulico, per rispettare la tradizione, per il ritmo, per la musicalità. Non è che così facendo allontanano le persone dalla poesia?
Chi è il destinatario delle poesie?
Io mi chiedo: a chi rivolgersi? Rivolgersi all’uomo che lavora, che non ha studiato e che non legge poesia? Oppure rivolgersi solo ai pochi appassionati, ai pochi cultori della materia, ai critici e agli italianisti? Per molti poeti è una partita persa in partenza rivolgersi al cosiddetto uomo della strada.
Alcuni poeti rinunciano al grande pubblico, chiusi nel loro snobismo, nel loro elitarismo. Succede così che le persone considerano poeti i cantanti. Non è che forse questo è il tempo non solo della post-verità ma anche della post-poesia?
Sappiamo come vanno le cose: tanto più un poeta scrive in modo difficile e più sembra profondo, intelligente, intellettuale. Più uno è incomprensibile e più è bravo! Ma è davvero così? Un mio amico, quando avevo vent’anni, mi diceva che voleva scrivere in un modo così criptico e incomprensibile che, se fosse diventato un poeta riconosciuto, i critici letterari sarebbero stati messi a dura prova a interpretare, a valutare. Era solo l’albagia di un ragazzo, ma ho la vaga impressione che alcuni poeti più maturi condividano questo sogno! Intendiamoci: ci sono ottimi poeti che puntano molto sull’indeterminatezza, sull’ambiguitá semantica, sulla polisemia e questo è più che legittimo. Però c’è più sforzo e più arte nell’esprimere la complessità del mondo o nel semplificare?
Insomma battere o levare? Nell’accumulo o nella sottrazione? In un modo si rischia l’eccessiva verbosità e nell’altro l’afasia. Chi cerca la sottrazione, il levare, cerca la sintesi. Chi sceglie il battere, l’accumulo, cerca la descrizione totale del mondo.
Ci sono poeti come Pavese che, pur essendo comprensibili, rivelano una precisione chirurgica linguistica. Pavese è chiaro ed esatto allo stesso tempo, come narratore e come poeta. Ma ci sono anche dei minori che sono troppo arzigogolati e inesatti. La poesia dovrebbe essere prima di tutto nominazione. Il poeta dovrebbe però cercare anche di raggiungere la soglia del dicibile.
Per il grande critico Andrea Cortellessa, la chiarezza e l’oscurità sono una questione troppo dibattuta, che genera polemiche sterili, anche se lui disdegna un certo esoterismo letterario. Un simbolo, una metafora, un’allegoria a ogni modo devono comunque essere comprensibili per diventare degli universali.
Per il grande critico Alfonso Berardinelli, la chiarezza e oscurità sono relative ai lettori, alla comunità, all’epoca.
Bisogna per forza farsi capire da tutti?
Bisogna sforzarsi di farsi capire da tutti oppure non si deve rinunciare in alcun modo alla letterarietà, anche se capiranno in pochi? E si può farsi capire a tutti ed essere letterari? La priorità è quella di farsi capire o di essere a tutti i costi letterari? L’espressività artistica deve essere tale a discapito della comunicatività, pur sapendo che quest’ultima da sola non basta?
Esistono vari rischi quando si scrive poesie:
- 1) Il rischio dell’idioletto, cioè di scrivere in un linguaggio privato, incomprensibile o difficilmente decifrabile;
- 2) il rischio della banalizzazione;
- 3) il rischio di scrivere in una lingua Standa, derivata dai mass media, dal consumismo
- 4) il rischio di diventare troppo commerciali e di non essere più poeti.
Per Sanguineti l’ideologia è linguaggio, il linguaggio è ideologia. Oggi però non è rimasta più alcuna ideologia.
Il peccato maggiore dei poeti forse è quello di essersi rassegnati ormai che la realtà incida più sul linguaggio di quanto quest’ultimo incida sulla realtà. Un altro difetto è quello di accettare la marginalità della poesia, anzi la volontà di voler essere a tutti i costi di nicchia. Oggi non si può scrivere come Pascoli e nemmeno come Montale. Ci vuole non dico innovazione linguistica ma un linguaggio appropriato alla propria epoca, in un certo qual modo attuale, senza farsi dominare dalla cronaca, dalle mode, dai neologismi, dai gerghi. Alcuni imitano ancora oggi troppo i grandi poeti del passato, basandosi sulle loro reminiscenze scolastiche.
Certi poeti dovrebbero a mio avviso venire un poco incontro al lettore. Se ci sono troppe citazioni colte in una raccolta poetica, allora si dovrebbe mettere delle note. Insomma chi deve fare il maggior sforzo, il lavoro più faticoso? Il lettore a capire o il poeta a farsi capire? In poesia alcuni complicano ancora di più le cose. Un conto è restituire la complessità del mondo e un altro è essere troppo complicati, impreziosire troppo il linguaggio, essere troppo ricercati, troppo affettati. Ma semplificando troppo si perdono per strada pezzi di realtà, a forza di essere troppo sintetici si perde di vista la sostanza ultima e il senso delle cose sfugge via irreprensibile. Ci vorrebbe una giusta misura. Ma la giusta misura è opinabile.
Ci sono dei termini non comuni che servono per descrivere la realtà e vanno usati, a meno di non essere imprecisi, sciatti, approssimativi.
Ma Matteo Pelliti su “La poesia e lo spirito” ci ricorda che per Giovanni Giudici i poeti scrivono per essere apprezzati e trovare consenso nella comunità letteraria, nel “novero” dei poeti. Non si può a ogni modo piacere a tutti, perché si finisce per non piacere a nessuno. Inoltre semplificando troppo si rischia di non dire niente. Forse alcuni cercano troppo parole difficili, paroloni, un lessico troppo forbito.
Sono i poeti che devono abbassarsi al livello dei lettori o sono i lettori che devono elevarsi culturalmente al livello dei poeti? E nel secondo caso a chi spetta questa elevazione? Alla singola persona o alla scuola e alle istituzioni? A mio avviso un modo per risolvere il problema è quello di trovare la ricerca della medietà linguistica, che sia però pregevole e non mediocre. Ma anche ciò ancora una volta è opinabile.
Per Einstein, bisogna semplificare senza essere semplicisti. Vale anche per la poesia? Ungaretti era semplice, anche se non facile, ma è passato alla storia soprattutto per l’innovazione, l’originalità e non per la semplicità.
Carlo Bo parla di “semplicità calcolata” per la poesia di Garcia Lorca. Prevert lo capiscono tutti ad esempio. Corazzini lo capiscono anche i bambini. Calvino è double face: ha più chiavi di lettura, ma alcuni suoi libri possono capirli anche i bambini, guidati dagli insegnanti, tant’è che viene letto già alle elementari e nelle scuole medie inferiori. La virtù di molti grandi è quella di farsi capire a tante persone, ma non è una regola universale che vale per tutti i poeti: rimanendo in Italia Zanzotto, Sanguineti, Amelia Rosselli, Mario Luzi sono impegnativi da leggere e capire.
Ma esiste una poesia facile e una poesia impegnativa? Esiste una poesia colta e una popolare? Bisognerebbe mettersi tutti d’accordo, ma è impossibile: qual è il fine ultimo della poesia? Descrivere il reale, simboleggiarlo, trasfigurarlo o dire come siamo fatti e di cosa siamo fatti noi esseri umani? Ancora una vota tutto questo è opinabile.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il linguaggio in poesia e letteratura: la controversa questione della semplicità o della complessità di un testo
Lascia il tuo commento