

La divina foresta
- Autore: Giuseppe Bonaviri
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Sellerio
È nelle “Purificazioni” che Empedocle, il filosofo delle due forze cosmiche opposte e complementari (l’Amore – Philia – e la Contesa o Odio – Neikos), riprendendo la dottrina orfico-pitagorica della metempsicosi, si riferisce a una legge necessaria di giustizia che fa scontare agli uomini, attraverso una serie successiva di nascite e di morti, le colpe di cui si macchiarono. L’agrigentino, che rimpiange la felicità dell’antica dimora, presenta questa dottrina come il suo destino personale:
Sono stato un tempo fanciullo e fanciulla, arbusto e uccello e muto pesce del mare (fr. 115).
Il frammento, fondato su un tracciato ininterrotto di evoluzione, viene assunto ad epigrafe da Giuseppe Bonaviri nel suo affascinante romanzo La divina foresta, ideato nel ‘64-’65 e pubblicato da Rizzoli nel 1969, nonché da Sellerio nel 2008 con la prefazione di Salvatore Silvano Nigro.
L’opera, il cui titolo riprende un verso del sommo poeta (Purgatorio, XXVIII, quando Dante è desideroso di inoltrarsi nel Paradiso terrestre: “locus amoenus risonante e folto”), da Italo Calvino fu definita “poema biologico”, pieno di libera invenzione. Anche Giorgio Caproni ne rimase affascinato per l’armonioso ritmo di prosa poetica. Sostenendone la pubblicazione, scriveva:
Una suggestiva historia naturalis ambientata in una remotissima Sicilia agli albori della creazione, è il tema, svolto in chiave tra lucreziana e, al limite opposto, perfino kipliniana, di queste pagine che il lettore, da un capo all’altro, segue con mai rallentato interesse e, diciamolo pure, con innegabile incanto poetico.
L’evoluzionismo fa con Bonaviri il suo ingresso nella narrativa e ci si potrebbe riferire a una nostalgia delle origini: successivamente all’esplosione del “big-bang”, quando nasceva l’universo ancora informe di vapori e nebulose, di vortici e oscure forze. Da un magma inconsistente e indefinibile nasceva la in una Sicilia aurorale e sacra.
L’opera segna l’inizio d’una storia che troverà il suo sviluppo in Notti sull’altura (1971) e L’isola amorosa (1973). Fantascientifica è la lingua, ricca di dati sensoriali. E suggestiona l’originale andamento fonico-visivo e cromatico: cifra lirica di sogno e fiato melodico. Ad ampio raggio è la varietà del linguaggio: dalle descrizioni paesaggistiche e naturalistiche, con particolare attenzione a piante e fiori, alla resa di un’atmosfera rarefatta e quasi impalpabile, da una prosa barocca all’uso di latinismi, neologismi e arcaismi non senza coloriture dialettali:
Un’effusione verbale unica, una produzione inesauribile di atti linguistici, una borgesiana babele di linguaggi, cui corrisponde una concezione del mondo come infinita biblioteca che racchiude i significati della realtà.
(Ambra Carta, Giuseppe Bonaviri. Le forme del racconto in google)
Senza dubbio l’elevato valore creativo affascina per l’ampiezza dell’immaginario.
La domanda sulla vita e sul destino degli esseri viene condotta al di fuori di qualsiasi superbia antropocentrica anche se ai protagonisti del regno animale, che hanno nomi d’antichi filosofi, vengono attribuiti atteggiamenti e pensieri umani pur restando gli uomini ombre fugaci e imperfette: “esseri infimi”, “bestie distruttrici” che fanno razzie e scorrerie, “esseri angustiati da inganni e dai disagi del corpo” in “rozze imbarcazioni” (chiaro il riferimento agli immigrati). La distruzione degli alberi diventa per loro un gioco giornaliero e il colle e la valle si fanno “in gran parte nudi, sterposi, con lunghe bande di terra rossiccia e di sai”. Non vale la pena preoccuparsi di loro – commenta il delfino Pirrone – sono “una menoma parte dell’universo, e forse la più insignificante”. Totale lo scetticismo: “Il mondo ormai invaso dagli uomini, era propriamente destinato alla miseria e al declino”.
Appare la divina foresta rigogliosa di vegetazione sui rilievi montuosi della nativa Mineo. Ogni aspetto è interconnesso ed essa è luogo di metamorfosi essendo l’“essere” non uno ma “innumerevole e immutabile”.
All’inizio della sua vicenda, il narrante – la cellula primigenia Fermenzio – al quale spetta la decifrazione della realtà, così si presenta in un universo primordiale ancora privo di forme specifiche:
Spero che la mia storia non susciti riso o compassione, ricca com’è di vicende che hanno inizio quando non c’era né alto né basso, e ancora l’aria non si era distinta dalla superficie delle acque. Attorno a me, c’era vuoto, e un suono impreciso, e io, avvolto com’ero dalla velocità d’un movimento che non posso definire, mi chiedevo: “che è? che non è?”. E quel mio primo tentativo di dialogare, fu un punto in quella negrissima notte.
L’irreversibile e inarrestabile corso degli eventi, il divenire d’ogni cosa avviene per la spinta di leggi naturali ed è la forza dell’interrogazione, unitamente allo stato d’irrequietezza, a far scoccare la scintilla della consapevolezza a partire dal legame di coppia. La trasformazione della materia si fa con gli accoppiamenti (“Siamo in due, finalmente!”; “Non ci accorgevamo ormai l’uno dell’altro”) e con sofferenti vicissitudini: lo stadio cellulare (quello di Fermenzio e della compagna Gumina), che ha la percezione dell’ambiente e lo racconta, passa a quello vegetale – la pianta di borragine detta Senapo. Ipocondriaca e spinosa.
Nel ritrovarmi pianta di borragine, non concomitò nessun mio atto di volontà. Avvenne […]. Volevo chiedermi come avessi fatto a varcare una soglia per imboccarne un’altra e volevo venire a capo d’intendere questa nuova sfera del mio esistere, ma non mi era possibile coordinare il passato, irretito com’ero da certe urgenti necessità.
Per l’azione del vento si compie l’impollinazione favorita poi dalla comparsa delle prime api. Una di esse – Irrumino –, posandosi su Senapo, lo succhia in modo dilettevole, dando luogo all’amicizia e a schermaglie d’amore:
Non fu facile fare amicizia, perché, come sapete, io ero urticariante e spinoso, e Irrumino era costretto a scansare ora questa, ora quell’altra mia foglia, per centrare il buco viola d’un mio fiore. Fu come varcare una nuova frontiera.
La pianta, avendo desiderio d’acquistare una nuova forma, s’immalinconisce per la monotona noiosità di Irrumino che, ancorché gioiosa e gentile, ripete le stesse azioni. Morendo, Senapo cambia di stato e si individua nell’avvoltoio Apomeo, signore dello spazio che vive tra i volatili “creature vocali e musiche”:
Non so se fu un buffo di vento in cui mi imbucai con gli ultimi resti; certo che per molto fui vuoto di pensiero; ma credo che qualcosa dovevo pur essere, forse materia che s’addensava, o puro aere mobilissimo. Rimasi in quello stato lungamente, ma a poco a poco mi individuai in una goffaggine di forme […]. E così mi ritrovai trasformato in volatile, e cominciai a muovermi in un bianco altissimo spazio [...]. Diventare avvoltoio, non è cosa di tutti i giorni, lassù sulle terre di Camuti, e non vi dico poi il gusto che ci si prova a mescolare l’aria ora con l’una ora con l’altra ala.
Un solo volatile ha da temere: l’aquila che è più possente e vola più in alto.
Tra lui e Toina - un uccello dalle morbide piume - nasce una tenera e dolce storia d’amore. Ben presto la loro felicità svanisce ed è la tristezza a prendere il sopravvento. Apomeo si accorge del suo strano umore; difatti, lei si ammala di malinconica e d’insoddisfazione. Poiché la sua mera esistenza non la soddisfa, anela ad una sorta di trascendenza: “altro non era che l’estinguersi medesimo del suo sentire”.
Apomeo chiede aiuto ad un barbagianni chiamato zio Michele, conoscitore delle erbe curative. Toina sembra migliorare: vuole conoscere le cause per le quali si formano i “sentimenti celesti” e intona canti che riempiono di melodia la valle. Poi scompare e non torna più. Totale l’offerta di sé e delle proprie energie a lei. Prende così la decisione di mettersi in viaggio per ritrovarla. Dai monti verso il mare l’accompagnano barbagianni e Cratete, il merlo dal nome cinico. A seguito della vana ricerca, vive follemente il dramma della separazione. In preda ai furori, compie una strage di animali e distrugge piante e fiori. Dal suo comportamento si coglie la dura legge della sopravvivenza: il più forte che si nutre del più debole. Sente il dolore e lo provoca agli altri per il sadico gusto di fare del male (eloquente la scena in cui becca dei serpenti e in volo li scaraventa da una elevata altezza traendone piacere). Col passare dei giorni si sente effimero e cresce la sua empietà, considerato ormai dagli altri esseri viventi un Dio onnipotente: una vera calamità.
Soggetto a crisi di inquietudini, l‘affligge la solitudine; conosce un’upupa di nome Isorina che si prende cura di lui, chiedendogli in cambio favori fino a volere un frammento di luna. Il grillo pitagorico Alcmeone lo cura con la musica e gli confida che le piante si muovono e pensano. Prigioniero dell’upupa, viene liberato dagli amici. Si convince sempre di più che la sua compagna possa essere volata sulla luna. Medita a lungo su ciò e ne parla all’uccello Antistene (nome del filosofo cinico per il quale sono gli atomi dalle forme diverse a caratterizzare il mondo). Nutre la speranza che gli amici si convincano a seguirlo lassù per trovarvi Toina. Panezio, amante delle incertezze, è il più deciso, mentre Apollodoro è il più restio. Partono malgrado le tante incognite. Percorrendo ampi spazi terrestri e celesti, il volo è avventuroso e gaudioso, ricco di sorprendenti spettacoli e non privo di molteplici difficoltà. La luna è percepita come nutrimento, manna, cibo, motivo di festa. E ariostesche sembrano le fantasticherie attraversate da una profondissima quiete leopardiana.
Volando si trovano nella terra di Novilck, che li accoglie e li guida: questi è il picchio, creatore di un codice di comunicazione per eternare la secolare esperienza. Lo realizza facendo con il becco intaccature sulla corteccia degli alberi e tracciandovi dipinture. È l’uccello Antistene a chiedergli la funzione:
volando per entro un eucalipto, Antistene gli chiese a cosa mirasse con le dipinture che tracciava in gran parte della selva che ci veniva incontro in un immite cielo di verde sbiadito. E l’uccello ci disse che segnava sulle scorze pensieri, ricordi, il mutevole e il difforme che il tempo portava con se medesimo, per farne un’opera immortale.
Novilik interpreta dunque il ruolo dello scriba-artista che inventa la scrittura e segna sulle scorze eventi antichi, pensieri e ricordi per renderli immortali. Il logos si afferma anche con i propositi conoscitivi dei membri della cosiddetta scuola del carrubo. Sono uccelli che formano il frontisterion:
Considerando vano il linguaggio del mondo, ricercavamo i principi del reale.
Il viaggio verso Selene, guidati da un vecchio eremita di nome Giuseppe, diventa ricerca dell’imprendibile verità: s’allontana la luna
volta sempre più ad aquilone, seguendo un calcolato ordine di tempo, che l’avrebbe fatta errare ancora per tre volte diecimila stagioni nel medesimo giro.
Apomeo, in definitiva, è l’archetipo dell’oltre, di colui che ricerca senza mai raggiungere il traguardo. Egli dall’isola di Ogigia, distante ormai dalla luna, osserva la volta celeste in continua espansione
La luna scomparve all’orizzonte, mentre tornava il buio persino sulla cima dell’albero dov’ero fermo a considerare il movimento delle costellazioni che, per qualità contrarie, divise in differentissime forme, s’allontanavano verso le regioni esterne dell’essere.

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