

Il sarto della stradalunga
- Autore: Giuseppe Bonaviri
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Sellerio
Per la piccolezza dei luoghi arroccati su alture solitarie o per la scenografia barocca dal colore del miele, per un passato di miseria o per una specie di protocollo su cui appaiono registrate disparate etnie, i paesi della Sicilia lasciano percepire favolistici seggi d’un mistero insondabile. È allora che Scicli o Modica, Caltagirone o Mineo aggrappata al colle – paese natale di Giuseppe Bonaviri, non distante da Catania, e ancor prima di Luigi Capuana – diventano le “città del mondo” e anche metafora del mondo. In questo senso, Giuseppe Bonaviri, poeta e narratore, traccia itinerari metafisici, ricchi di suggestioni “sciamaniche ” e “orientali”. Il suo viaggio magico-cosmico è alimentato da “credenze filtrate da religioni lunari, innestatesi, e intrecciatasi in Sicilia per influssi di popoli eterogenei” (L’incominciamento, Sellerio, Palermo, 1983). Vi sono anche ascendenti nel mondo bonaviriano che vanno da Democrito a Empedocle, dall’astrologo cinquecentesco Mayer ad Albert Einstein, fermo restando che il riferimento dei suoi vissuti resta la natia Mineo dove minuscoli personaggi ragionano sui problemi della vita e della morte. Il padre morto può allora narrare il suo viaggio astrale:
È una forza antigravitazionale che mi sospinge figlio / fuori dal dilettuoso mondo, costretto io / ormai nell’espansiva ruota di galassie e supergalassie, mari illimiti che rilucono / in distorsioni di tempospazio che ci intinge / e ci trasfigura, flusso di fotoni anch’io, in una equivalenza massa-energia / e in un’apparente simultaneità di ritmi stellari.
Il viaggio di tutte le cose si realizza nel farsi e disfarsi, nel perenne scorrere di metamorfosi possibili al di fuori della fisionomia della terra e “dell’umano sentire”. Così appare l’esito intriso di struggimento e di malinconia: il viaggio tra i luoghi d’infanzia e del paese finisce col dissolversi nel nulla delle mutazioni. Nella rete di sogni, inquietudini, dubbi e misteri, paesi e città dell’isola, divenendo archetipi magici, fanno scoprire i temi coi quali da sempre si è commisurata l’interrogazione umana. Proprio la figura del padre è focalizzata nel suo esordio narrativo Il sarto della stradalunga (Sellerio, 2020) dalla ammaliante e complessa affabulazione (realtà e favola, mito e cosmogonia), il cui protagonista si chiama don Pietro Scirè.
Italo Calvino lesse il dattiloscritto di questo romanzo, e fu Elio Vittorini a esprimere un giudizio lusinghiero, pubblicandolo nei “Gettoni” della collana einaudiana (1954). Nel risvolto di copertina da questi curato si legge:
Il valore poetico è nel senso decisamente cosmico col quale l’autore rappresenta il piccolo mondo paesano su cui s’intrattiene, trovando anche nelle erbe e negli animali, nei sassi, nella polvere, nella luce della luna o del sole un moto o un grido di partecipazione alle povere peripezie del sarto e dei suoi.
Dall’edizione curata da Sellerio (2006) apprendiamo quanto Sciascia ha detto:
Il libro di Bonaviri piacque per la fresca ispirazione, per la favolosa trascrizione di una povera e umana vita quotidiana: quel che di lezioso e di altro notò qualche critico, e noi come semplici lettori, era un modo di auscultazione della realtà e non una tecnica calcolata.
Volgiamo adesso lo sguardo ai contenuti del romanzo. Costretto all’ozio nei mesi d’inverno nebbioso e fitto, a scrivere pagine della sua vita è il trentaduenne don Pietro Scirè:
Io don Pietro Scirè sarto della stradalunga, costretto dall’ozio di questi mesi fitti d’inverno, mi propongo di scrivere qualche pagina sulla mia vita. Finite le feste di Natale in cui i contadini, con le berrette calate sino alle orecchie per il freddo, mi girano attorno o per i calzoni di tricot o per la giacca vecchia da rivoltare e rimettere a nuovo, a Mineo, per noi sarti, non resta altro da fare che posare aghi, ovatta e forbici e starcene dietro vetri della bottega a contare le pietre della strada o andare a sputare tra i tavoli del Caffè dei Benserviti.
Autodidatta, che sa leggere, scrivere e conosce "I Paladini di Francia", nutre il bisogno di scrivere per reagire alla noia dovuta alla mancanza di lavoro, cominciando a pescare nella memoria “tutto ciò che è passato” per comprendere “che il mondo dovrà migliorare”. A mo’ di demiurgo, che utilizza il passato come rigogliosa fonte di creatività, pensa di dividere il suo scritto in tre parti che intitolerà: 1) Parlo io. 2) Parla mia sorella Pina. 3) Parla mio figlio Peppi che ha undici anni. Singolare, innovativa la strategia dei blocchi narrativi: ogni figura della famiglia di generazione diversa si fa protagonista e si racconta nella prima metà del secolo scorso. Da Pina, quando la sera fa la calza attorno al braciere, si farà raccontare le sue speranze nei suoi quarantacinque anni e le impressioni più segrete avute da ciò che le è accaduto; con Peppi deve stare più attento perché è ragazzo ed è dotato di una non comune inventività: “Ma con qualche fico secco pieno di zucchero che mi farò dare da mia moglie, saprò io come farlo parlare". Per la correzione si rivolge a Giovannino, impiegato al Municipio, ma questi lo deride con una battutaccia: “Anche le pulci hanno la tosse oggigiorno!”. Irriverente quell’atteggiamento e il sarto, sentendosi offeso, vorrebbe dirgli:
Me ne infischio di voi, dei vostri studi all’università e di tutti i vostri libri.
Ha la bottega a pianterreno nella stradalunga di Mineo che naviga tra le nuvole:
incomincia dalla piazza accanto al Casino dei Nobili e via via che sale si fa stretta, con varie gomitature, sinché si apre e finisce sul piano di Santa Maria maggiore.
Vanno a trovarlo i contadini analfabeti perché egli scriva una lettera alla loro innamorata. Cita Dante (“Dovrei essere come Dante Alighieri per poterti dire ciò che arde nel mio cuore e nelle vene”) e l’interessato, incuriosito, chiede: “Chi era questo Dante?”. La scrittura è di elegante letterarietà, ma inopportuna per il committente e la destinataria:
Mio eterno amore, non so stare a lungo senza prendere la penna e comunicarti i sentimenti che nutro per te. Dovunque io vada ho sempre presente la tua immagine che vedo nella chioma degli alberi, nei fiori che spuntano lievi dalla terra verde, nel vento che trema nel frumento. T’amo pazzamente.
Il riso affiora quando il contadino interviene, correggendo lo scrittore:
No, compare, no! Quel “pazzamente” è sbagliato. Mi dovete scusare se io analfabeta vi dico di queste cose, ma le cose giuste son cose giuste. In siciliano si dice“ pazzamente”, ma è brutto e offensivo. In italiano invece si dice “pazzientemente”.
Il sarto vive i suoi ricordi familiari; s’abbandona alle fantasticherie animate dal vento che “vive e sente come un uomo”; fiuta, smania e trasforma Mineo “in una palla grande e scura librata sul vertice d’un monte”. E poiché le fantasticherie non danno frutto, torna alla storia vera della sua vita.
Gradevolmente essenziale la descrizione dell’ambiente che è animistica e attraversata da una visionarietà lucreziana: il rumore felpato della luna viaggiatrice luccicante come una cupola di vetro, i fichidindia spinosi par che si curvino sotto l’arsura e nei vari momenti della giornata luccicano “come simboli intangibili e sacri”, lo scintillio di stelle, il canto dei grilli lungo il ruscello, gli abissi di luce odorosa, l’allegria delle tegole, il rosseggiare dei rovi, i voli rari e bassi dei merli, il sole che pare un fiume di sangue, le rondini che impazziscono intorno ai campanili. D’estate il lavoro s’infittisce. Don Pietro si ritrova con l’amico Antonio, fabbroferraio. E insieme amano parlare della luna. In agosto per sei giorni si festeggia Sant’Agrippina e per l’occasione ogni villano ci tiene a farsi cucire il vestito nuovo. In campagna è tempo di mietitura e di trebbiatura e in paese giungono i canti dei villani dalla faccia arsa. Sul finire di luglio, tornano in paese con le bestie cariche e le donne, che indossano vesti nere lunghe sino alla caviglia, li aspettano sugli usci, mentre i camini fumano per il cibo che si prepara. La festa è uno scatenarsi di energie dopo un anno faticoso e di solitudine:
Le madri sono felici perché possono combinare i matrimoni per le figlie che escono dalle catapecchie e dalle stalle con le vesti più bizzarre e talvolta buffe e con l’espressione d’animali in amore in viso.
Ricorda il sarto della stradalunga i preparativi che si svolgevano in casa sua: per esempio, il pranzo della domenica che era un immancabile rito di convivialità. Sull’imbrunire esce dalla chiesa la Santa ingioiellata e le urla, che si fondono con lo sparo dei mortaretti, scuotono l’aria. L’importanza della festa è storica: “vale più delle gesta di Giulio Cesare o di Napoleone Bonaparte".
La testimonianza biografica di don Pietro Scirè non è centrata esclusivamente sul soggetto e sulla famiglia, giacché l’io narrate si pone in relazione con gli usi e con i costumi della comunità d’appartenenza: società dal carattere rurale e artigianale di matrice feudale, dov’è stridente il contrasto tra ricchi e poveri che affiora anche da questa deliziosa notazione:
Come tutti i tetti di Mineo, tranne quello dei cavallacci e di qualche ricco massaro, il nostro era fatto di canne intrecciate e legate con spago, saldate tra loro da gesso che in minuscole stalattiti pendeva color bianco sporco. Aveva una pendenza eccessiva tanto che verso il balcone lo raggiungevamo con le mani.
Gustosa la scena che li descrive: un tempo i cavallacci erano baroni o ricchi feudatari, oggi sono gli impiegati del Municipio. C’è tra loro qualche prete e alcuni contadinotti arricchiti. Nei pomeriggi d’autunno e d’inverno stanno sonnolenti dietro i vetri del Casino, allineati sui sofà.
Il paese e i suoi personaggi, le credenze sugli spiriti vaganti per fare il male e dei “nnonni” - i fantasmi - che scambiano i bambini belli con quelli brutti, il caffè e il casino di conversazione dei nobili o Cavallacci come a Mineo sono chiamati, i brevi dialoghi all’interno della narrazione intrisa d’un realismo magico, la raccolta delle olive e delle mandorle, le fantasie vissute in un’infanzia favolosa e lontana fanno parte dell’autobiografia del sarto che rievoca alcuni episodi del figlio Angelo morto ancora ragazzo, nonché il modo di vivere di sua sorella Pina, vittima sacrificale del patriarcato e zitella che, trasmettendo la sapienzialità orale, ama raccontare fiabe ai nipoti nei giorni piovosi, tra cui “La fiaba del cavalluccio verde” la quale, alla maniera del “cuntu” siciliano dai magici incanti, mostra incantesimi e metamorfosi. Ed è nella favola che il realismo si trasmuta nel fascino di una una visione mitica. Profondo l’affetto di Pina per tutta la famiglia senza la quale non potrebbe vivere; sono le sue parole a esprimere una meditata, malinconica accettazione della realtà che evoca la verghiana rassegnazione dei vinti:
Ma oggi penso che allora c’erano ragazze più sfortunate, le quali erano costrette a restare sempre in campagna fra le lucertole, le bestie e le galline.
Dice Pietro Scirè:
[…] ogni individuo quando scrive non è sempre uguale, ma lega necessariamente il filo della sua storia a varie condizioni esterne come il rumore, il freddo, il caldo e a varie condizioni interne come piccole soddisfazioni avute, come incertezze che lo turbano e infine alla fisiologia dei suoi organi come gli intestini, il fegato, la vescica e il pene. Per giunta un povero sarto come me che vive un inverno in un ozio incredibile e nella miseria che lo sovrasta e lo schiaccia, non può fare a meno di seguire le chimere più strane e più sciocche in questo paese abbandonato in cui esistono soltanto vicoli pieni di fango e di merda e case vecchie che si spaccano mentre dentro vi vivono i villani assieme agli asini e alle galline.
A narrare poi è il figlio Peppi: l’autore del romanzo Giuseppe Bonaviri. Svolge nei campi umili lavori per necessità e gli si chiede di contribuire al magro bilancio familiare. Va con gli amici - una piccola banda - in cerca degli spiriti delle anime dei morti, poi tutti raggiungono il convento dei Cappuccini per confessare il peccato commesso. Fra ingenuità e candore, Peppi termina il suo racconto con la consapevolezza del valore del lavoro; fra tanta desolazione, l’attenzione viene focalizzata sull’atavica fame. E’ il “mangiare” ad essere il bisogno primario da soddisfare per continuare a vivere:
Ormai abbiamo quasi tutti dodici anni e portiamo i pantaloni lunghi e non possiamo restare a casa a mangiare il pane a tradimento come i figli dei cavallacci. Io però non voglio fare il villano e se il lavoro di mio padre in avvenire andrà per il meglio, ritornerò nella bottega e assieme a mio fratello Giovanni imparerò l’arte del sarto e non soffrirò il freddo e il caldo lavorando nelle campagne. A questo punto non so più cosa raccontare e poi anche mio padre s’annoia a scrivere la sera sul tavolo della cucina. S’aggira triste durante il giorno per le stanze e dice di voler andare lontano da Mineo in una città qualsiasi dove la gente trova di che mangiare.
Poema corale questo romanzo scritto “nel nome del padre”, con le splendide immagini della natura. Ed è un poema dal valore poetico che ha molto di “sacro” nella dignità del lavoro e di un modo di vivere: le parole che il figlio offre al proprio padre sono il dono che gli fanno umanamente realizzare l’aspirazione di scrittore.

Il sarto della stradalunga
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