Elsa Morante non amava le biografie. Non dava alcuna importanza alla mera successione cronologica degli eventi della sua vita, voleva che a parlare di lei fossero i suoi romanzi e null’altro. Mentì sempre persino sulla propria data di nascita, cercando di depistare i suoi aspiranti biografi: scrisse “A me piacerebbe di essere senza età”.
Approcciarsi alla grande scrittrice del Novecento italiano non era dunque impresa facile: Elsa Morante appare quasi come una figura mitologica, un eterno “ragazzo” come le piaceva definirsi in riferimento al suo Arturo, un’icona irraggiungibile. È uno di quegli esseri che “ignorano la morte”, sono eternamente vivi, immortali e, di conseguenza, inconoscibili.
Un’altra scrittrice, Angela Bubba, si è avvicinata al mistero di Morante: lo ha fatto in punta di piedi, con estrema discrezione, stando attenta a non prevaricare, a cedere il passo lasciando spazio non agli eventi ma alla voce inimitabile di Elsa Morante.
Per affrontare Morante, Angela Bubba ha deciso di agire ad armi pari sul suo stesso campo: scrivendo non una biografia né un saggio, ma un romanzo, ricercando la scrittrice nel suo stesso sortilegio. Da questo incontro, in bilico tra fantasia e realtà, tra arte e vita, è nato il libro Elsa (Ponte alle Grazie, 2022), spesso definito una biografia romanzata.
In realtà nelle pagine di Elsa, Angela Bubba riesce a far risorgere Elsa Morante dalle sue ceneri come una fenice. Lo fa prestandole voce sino a comporre un ritratto inedito e privato che tuttavia non viola l’intimità sacra della scrittrice.
Ne risulta un libro che è un grande atto d’amore per la letteratura e un omaggio alla più grande scrittrice del Novecento letterario italiano: il tentativo di restituirne il lato più recondito e oscuro, la complessità emotiva e caratteriale, lasciandone tuttavia sempre intatto il mistero.
Ne abbiamo parlato con l’autrice, Angela Bubba, in questa intervista.
- Elsa Morante non voleva essere intrappolata nelle parole dei biografi. Spesso ha dichiarato di odiare le biografie. Non voleva essere definita dalle parole degli altri. Partendo da questo presupposto, come ti sei approcciata alla scrittura di Elsa? Non hai avuto paura di affrontare un mostro sacro della letteratura italiana?
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Ho letto Elsa Morante per la prima volta quando avevo diciassette anni, la stessa età del protagonista de L’isola di Arturo: il ragazzo che porta il nome di una stella. Lo lessi con gli occhi spalancati, divorando le pagine. Quel libro è stata l’àncora che mi ha trascinato nel mondo di Elsa. Da quel momento non l’ho più abbandonata. Ci siamo inseguite anche attraverso una serie di coincidenze: quando sono venuta a vivere a Roma ho ritrovato i suoi luoghi, le case che aveva abitato, i quartieri che aveva attraversato. Le ho dedicato entrambe le mie tesi di laurea, studiando approfonditamente tutta la critica sulle sue opere, i suoi carteggi, i suoi diari. Ho avuto anche l’opportunità di conoscere i suoi parenti, tra cui il nipote David Morante, cui sarò sempre grata per le informazioni preziose che mi ha dato: non solo sulla scrittrice, ma sulla donna che Elsa era stata. Quindi quando ho deciso di affrontare questo libro ormai studiavo Morante da più di sedici anni. Ho capito subito, però, che non potevo intrappolarla in una biografia. Non volevo creare qualcosa di troppo rigido, statico oppure, nel senso opposto, sperimentale. Ho voluto mantenere una forma di moderazione. Allora ho scelto la forma a me più congeniale: la scrittura creativa, il romanzo.
- Nella prima parte del libro ripercorri l’infanzia di Elsa Morante e in particolare il rapporto con la madrina, Maria Guerrieri Gonzaga, che ebbe un ruolo chiave nel definire il suo futuro di scrittrice. Come hai ricostruito la figura, così sfuggente, di Elsa bambina?
Elsa fin dalla più tenera età inizia a sperimentare con la scrittura: compone poesie, scrive racconti. Nutriva una grande fascinazione per le parole e questo sua madre, Irma Poggibonsi, che era maestra elementare l’aveva capito subito. La madre la incoraggiò sempre: voleva che lei fosse la più brava, la migliore, la scrittrice. Il loro rapporto, però, era difficile. Nell’infanzia di Elsa c’è anche un’altra figura: Maria Guerrieri Gonzaga, la madrina, che in un certo senso è stata il contraltare della figura materna. Era una nobildonna, una filantropa, proveniva da un ambiente diverso, al quale la vera madre di Elsa - Irma - non apparteneva. Trascorrendo i pomeriggi a casa della madrina Elsa scopriva un mondo diverso. Ho pensato spesso a questa bambina: figlia di due padri (il padre anagrafico era Augusto Morante, quello biologico Francesco Lo Monaco Ndr) e allo stesso tempo divisa tra due madri così diverse. Deve essere stato difficile per lei reggere questa bidimensionalità sia materna che paterna, come una sorta di commedia del riflesso che in parte la fortifica, ma le lascia dentro anche una grande malinconia.
- C’è questa riflessione sul nome “Elsa” che collega le due madri. Irma dice alla figlia che porta il nome di una spada, mentre la madrina sottolinea la sua unicità dicendole che “Nessuna spada somiglia a un’altra spada”. Una frase molto bella. Questa riflessione è tua, oppure si può ritrovare in qualche scritto morantiano?
Mi piaceva l’idea di farla ragionare sul suo nome. Forse perché sono sempre stata fissata con l’onomastica. Trovo che Elsa sia un nome bello e particolare che rispecchia la personalità di Morante, proprio come la spada forgiata nel fuoco. Racconta la sua delicatezza e, al contempo, la sua forza. Elsa era una donna complessa, capace di unire in sé gli opposti. In un episodio raccontato forse negli Aneddoti infantili (Einaudi, 2013), Morante scrive che la maestra alle elementari la definiva un “genio”. Per lei essere un genio non era un sinonimo di forza, ma di solitudine. Questo mi ha ricordato un topos letterario: le aquile volano alto, sanno vedere oltre, però sono sole. Non a caso si dice “sola come un aquila”: nell’ambizione di Elsa di essere la prima, nella sua unicità, è racchiusa anche la sua solitudine.
- La maternità gioca un ruolo chiave nel libro. Elsa appare profondamente segnata dall’aborto vissuto in giovinezza e dalla sua impossibilità di essere madre. Vede nel personaggio immaginario di Arturo il figlio che non ha mai avuto e addirittura dialoga con lui. Questo è un lato forse inedito della scrittrice che nel tuo romanzo emerge con forza. Come hai esplorato questo argomento così insidioso, la mancata maternità di Elsa Morante?
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Ero particolarmente ossessionata da questo fatto, perché è stato l’argomento della mia tesi di laurea, in seguito pubblicata con il titolo di Elsa Morante. Madre e fanciullo (Carabba, 2016). Volevo indagare come l’evento drammatico dell’aborto avesse condizionato la sua opera: eppure più cercavo di approfondirlo più scoprivo che era un fatto taciuto, spesso censurato. Non avevo alcun appoggio per avvalorare la mia tesi, finché non ho trovato una lettera di Umberto Saba. Saba aveva appena letto il racconto Lo scialle andaluso e scrisse a Elsa un commento che sembra un piccolo saggio di critica. In questo testo Saba fa un’affermazione fondamentale: “La tua nostalgia di essere un ragazzo è in realtà la nostalgia di non aver messo al mondo un ragazzo”. Il poeta diceva che Morante si era identificata non nel protagonista, Andrea, ma nella madre.
Questo appunto mi ha permesso di rileggere l’intera opera di Morante: l’arte come compensazione delle mancanze della vita.
- Nella parte finale del libro immagini un dialogo tra Elsa e Medea, l’infanticida per eccellenza. Lo schema ricorda I dialoghi con Leucò di Pavese: attraverso il rapporto con il mito Elsa cerca di scagionarsi dalla sua colpa?
Ho creato quel dialogo immaginario in omaggio all’amore che Morante nutriva per la cultura greca antica. Lei amava quei testi, li interrogava, vi cercava risposte. Ho pensato che Medea potesse rappresentare l’interlocutrice ideale. Nel dialogo non emergono le loro affinità, ma le loro differenze. E Medea è una figura che si ricollega a un’altra persona molto cara a Morante, Pier Paolo Pasolini.
- Nel romanzo descrivi anche il rapporto complesso di Elsa con Pasolini. Un’amicizia stretta, ma spesso difficile, che a un certo punto viene intorbidata da una serie di incomprensioni. Che idea ti sei fatta del loro rapporto?
Credo che l’amicizia tra Elsa Morante e Pier Paolo Pasolini, proprio come l’amore tra Elsa e Moravia, non sia mai finita. Il loro rapporto non si è mai incrinato davvero. L’ultimo romanzo di Morante, Aracoeli, in un certo senso ne costituisce la prova. Nelle pagine Elsa riporta la data di morte di Pier Paolo. E il protagonista Manuel, che è omosessuale, è molto simile a Pasolini. Il libro intero racchiude un omaggio al ricordo dell’amico, ed è la prova che l’affetto tra loro non era mai venuto meno.
Il libro uscì nel 1982 e contiene già in sé il presagio della fine. Morante morì appena tre anni dopo.
- Un altro evento sorprendente narrato nel romanzo è la vittoria del Premio Strega. Elsa Morante fu la prima donna a vincerlo, nel 1957. Ma tu non lo descrivi come un momento felice, tutt’altro. Lei appare turbata, dice che “vincere è bello e triste” e soprattutto “faticoso”.
Il Premio Strega è stato la sua incoronazione letteraria, quindi indubbiamente per lei un momento epico, atteso e sognato. Però volevo far emergere anche il lato umano della faccenda. Nessuno raggiunge una meta così importante con serenità. Tutti i momenti epocali della nostra vita ci colgono, in un certo senso, impreparati, spaventati, forse un po’ insicuri. Guardando il video storico di quell’edizione del Premio Strega mi aveva colpito molto la sua dichiarazione ai giornalisti: lei dice che il suo romanzo, L’isola di Arturo, non era stato capito dalla stampa e cerca di spiegarlo. Sembra che voglia togliersi un sassolino dalla scarpa. Io quindi in quel momento l’ho immaginata così: sottilmente infastidita, ma battagliera, pronta a difendere il suo personaggio, la sua scrittura.
- Emerge anche questo aspetto: il tormento per il giudizio della stampa, dei giornali, dei critici. La critica cercò sempre di incasellare la scrittura di Morante in un determinato canone senza riuscirvi. Lei spesso rispondeva in modo avvelenato alle domande dei giornalisti. Oggi è la maggiore scrittrice del nostro Novecento ma, all’epoca, la critica non fu clemente con lei. Non furono scritti grandi elogi alle sue opere.
La critica fu spietata nei suoi confronti. Mi colpì in particolare una recensione uscita su Aracoeli che titolava: “Questo libro è bello o brutto?”. Oggi nessuno oserebbe dire nulla contro Morante né porre questioni sul valore della sua opera, è diventata intoccabile. Ma all’epoca la critica fu molto dura con lei: ricordiamo anche la recensione di Pasolini a La storia. Nel libro volevo riportare anche questo aspetto della vita di Elsa: che la stampa non le diede mai vita facile.
- Elsa Morante definisce il suo capolavoro, La storia, come una tragedia familiare e afferma che in fondo “tutte le tragedie sono familiari”. Questa definizione, in riferimento a una delle opere maggiori del Novecento, mi ha colpito. Mi è sembrato avvilente ridurre l’affresco de La storia al nucleo familiare. Ma del resto la famiglia, in particolare la tragedia familiare, ritorna come un tema ossessivo in tutte le opere di Morante, non è così?
Non credo sia un modo per sminuire l’opera, in realtà lei fa notare che la famiglia è la radice e l’origine di tutte le cose. Forse La storia simboleggia proprio questo, il fatto che siamo un’unica grande famiglia di umani. In fondo è dal luogo in cui nasciamo, dalle nostre radici, che ci portiamo dietro dolori, rancori, e tutto ciò che poi condizionerà il resto della nostra vita. Il senso della “tragedia familiare” ritorna nelle trame dei romanzi di Morante. Dobbiamo ricordare, inoltre, che Elsa Morante lasciò la sua famiglia d’origine molto presto, a soli diciotto anni. Suo nipote, David Morante, mi ha raccontato un annedoto curioso: prima di andarsene Elsa spiegò alla madre che persino Gesù Cristo disse alla Madonna “Devo andare”. C’era in lei un insopprimibile desiderio di libertà e anche una forte vocazione all’indipendenza.
- Ora pongo quella che potrebbe essere la domanda più difficile. Quanto c’è di te in Elsa?
Credo che tutto ciò che scriviamo in fondo sia impregnato delle nostre idee, del nostro modo di sentire il mondo. Però in questo libro ho fatto lo sforzo di entrare in sintonia con Elsa Morante, con le sue convinzioni e i suoi pensieri. Sono io a scrivere, ma queste pagine sono anche un tuffo nella sua voce. Volevo che ad emergere fosse la voce di Elsa e non la mia. Per questo motivo nel libro ho inserito delle parti in corsivo, scritte in prima persona, in cui cerco di dare la parola direttamente a lei come in degli estratti di diario. Mi sembrano le pagine più luminose del libro, quelle che permettono al lettore di entrare in empatia con lei e aiutano ad accendere la narrazione.
- Hai testimonianza di qualche lettore che ha riscoperto Elsa Morante attraverso il tuo libro? O che magari si è avvicinato a lei per la prima volta?
Mi ha sorpreso un ragazzo del liceo che mi ha scritto dicendomi di essere sempre stato più “moraviano” ma di aver riscoperto Morante attraverso le pagine di Elsa. Le sue affermazioni mi hanno colpito perché lui, così giovane, è andato oltre quell’opposizione classica tra Morante e Moravia ancora presente in molti adulti, letterati e critici. Ho trovato molto matura l’osservazione di questo ragazzo capace di andare al di là degli schemi. E poi ha solo diciassette anni, mi ha ricordato un “piccolo Arturo”.
- Sei d’accordo con quel che dice Elsa: “I libri non sono figli, i libri sono altro”?
Penso che l’espressione “I libri sono figli” possa essere intesa non come una verità, ma come una similitudine. “Sono figli” nel senso che sono una parte di te. Ora io, come Elsa, non sono madre, ma credo che con un libro non ci sia la stessa intensità del rapporto che si instaura tra una madre e il suo bambino. Una volta che l’hai terminato lasci il tuo libro libero di andare incontro ai lettori. Io penso che i libri siano un mistero, un enigma che non è detto che riuscirò mai a sciogliere. Non si sa davvero come nascano, da dove arrivino. I libri sono come un margine tra due mondi, una frontiera da attraversare.
Proprio grazie ai suoi libri Elsa Morante, in qualche modo misterioso, è sempre presente nella mia vita.
Recensione del libro
Elsa
di Angela Bubba
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista ad Angela Bubba, in libreria con “Elsa”
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