

Dopo la proclamazione del Regno d’Italia, avvenuta il 17 marzo del 1861, tutti i giocatori presenti sullo scacchiere degli equilibri internazionali erano consapevoli che presto o tardi il nuovo stato avrebbe cercato di annettersi anche il Veneto. Restavano solo da definire ’il quando’ e ’il come’. L’occasione decisiva per raggiungere tale obiettivo si presentò nel 1866, quando il governo italiano stipulò un’alleanza con la Prussia, la quale, desiderosa di compiere l’unificazione della Germania, entrò in guerra con l’Austria.
La terza guerra d’indipendenza e la cessione del Veneto al Regno d’Italia
Prima dello scoppio del conflitto, il governo prussiano chiese il sostegno militare italiano, in modo da mettere in difficoltà gli austriaci anche a Sud, dividendo le loro forze. In caso di vittoria, fu promessa all’Italia l’acquisizione di ciò che restava del Regno Lombardo-Veneto, ossia la Venezia (questo il nome storico della regione), Mantova e il Friuli. Il 20 giugno 1866 la monarchia sabauda dichiarò guerra all’Impero asburgico ed ebbe così inizio la terza guerra d’indipendenza, combattuta tra il 23 giugno (data d’inizio delle ostilità) e il 12 agosto del ’66.
I volontari, guidati da Garibaldi, ottennero risultati di non poco conto, riuscendo a penetrare nel Trentino, mentre si rivelò peggiore la situazione delle forze armate regolari italiane, che furono sconfitte su terra a Custoza, il 24 giugno, e per mare nella celebre battaglia navale di Lissa, il 20 luglio. Pietro Calà Ulloa (1801-1879), legittimista borbonico liberale, ha lasciato scritto:
Noi non ci siamo rallegrati de’ disastri di Custoza e di Lissa
ma non tutti tra gli oppositori del processo risorgimentale la pensarono come lui. Anzi, il governo di Francesco II (1836-1894), Re delle Due Sicilie, in esilio a Roma – di cui lo stesso Ulloa era primo ministro – confidò che la vittoria degli austriaci avrebbe potuto condurre addirittura allo smembramento del Regno d’Italia. Tuttavia le speranze dei legittimisti furono frustrate: la Prussia sconfisse gli austriaci e l’Italia ottenne la Venezia, il Friuli e Mantova.
Battuta dai prussiani, l’Austria accettò di cedere il Veneto alla Francia di Napoleone III (1808-1873, Imperatore dal 1852), che – assumendo il ruolo di mediatore tra le parti – avrebbe poi dovuto trasferire quel territorio all’Italia. In relazione alla "Questione Veneta", tuttavia, l’Imperatore dei francesi non era affatto un osservatore disinteressato e sin dal 1859 aveva sempre guardato con preoccupazione alla possibilità che potesse nascere uno stato italiano unitario e forte, poiché riteneva che una simile entità avrebbe potuto costituire un pericolo per le mire egemoniche di Parigi. In questi frangenti del 1866, lo spirito della grandeur francese si tradusse nei giornali d’oltralpe in articoli che ipotizzavano la nascita di uno stato veneto separato, ovviamente legato a Parigi e preludio di una rinnovata e più vasta dominazione sulla Penisola. Va però sottolineato che tali rivendicazioni, nate in ambito giornalistico, non furono mai ufficialmente sostenute dal governo francese.
Il plebiscito veneto e le ambizioni francesi
L’idea di un plebiscito per sancire la cessione del Veneto all’Italia, però, era già stata discussa anche negli ambienti governativi italiani a partire dal maggio 1866, e di fronte alla posizione assunta dall’Austria (non disposta a consegnare i territori direttamente all’Italia) la votazione rappresentava la via d’uscita più dignitosa per evitare che il Veneto fosse percepito come un dono francese piuttosto che come una conquista militare.
Come premesso, tuttavia, il ruolo assunto da Napoleone III nelle vicende della Venezia ispirò alla stampa francese diversi articoli che prospettavano un destino differente: quello della nascita di una nuova repubblica veneta.
Anche se si tratta di fatti che sino ad oggi sono stati poco approfonditi, queste voci di corridoio ebbero un’eco pure nel giornalismo anti-unitarista presente in Italia. Le speculazioni dei pubblicisti – argomento su cui si concentrerà il presente articolo – non erano del tutto frutto di invenzioni, ma in realtà si basavano sulla circolazione di notizie che effettivamente sembravano offrire qualche possibilità di credere che il Veneto avrebbe potuto diventare uno stato autonomo (o meglio un protettorato francese). Il 6 luglio 1866, ad esempio, il console francese Léon Pillet (1803-1868) comunicò in patria che
[A Venezia] L’intera notte è trascorsa in feste e libagioni. Dappertutto, nei caffè e nelle birrerie, si beveva dicendo: Noi siamo Francesi!
Che qualcuno nella città di San Marco simpatizzasse per i francesi lo ammette anche la scrittrice Luigia Codemo (1828-1898), che fu testimone delle stesse scene e in una sua lettera dell’8 luglio 1866 scrisse:
[...] la gioia è stata sospesa, quella cessione alla Francia ci turba, e a questo proposito io ti potrei riferire discorsi di questa popolazione, i quali danno a divedere quanto quel sentimento d’onore sia negli animi di tutti, dappoiché, cominciando dal più civile e terminando dal più ignaro marinaio o ciabattino, tu non odi che una cosa – piuttosto che liberi con disonore, restiamo austriaci. – Soltanto in alto, nelle persone tirate a pulimento o nuovo o vecchio, c’è qualche brutto segno. X s’è quasi accoppato investendo un tavolino nell’uscir dal caffè, per correre addosso al console francese, a fargli salamelecchi di buon suddito... così altri. Miserabili!... e volean apparire i protoquamquam del liberalismo...e tali li terranno, perché la potenza abbaglia. Ma si accorgeranno prestissimo quanto vale chi, appena ci si toglie la livrea dell’Austria, curva il dorso a metter quella francese.
La stessa scrittrice, il 21 luglio, confusa dal lavoro della diplomazia, si chiedeva: "Siamo Italiani, Francesi, od Austriaci?" (L. Codemo, Lettere politiche, in «La rivista europea», anno VII, vol. II, fasc. II, 1876). Mentre il 3 agosto l’ambasciatore austriaco a Parigi, Richard von Metternich (1829-1895), scrisse al ministro degli esteri Alexander Mensdorff-Pouilly (1813-1871) che si sarebbe potuta risolvere la questione del confine italo-austriaco con "l’indipendenza della Venezia sotto un governo autonomo com’era la vecchia Repubblica", in modo da creare uno stato cuscinetto.
Che senso aveva votare “No” al plebiscito veneto?


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Della controversa faccenda della cessione della Venezia si è occupato il giurista Francesco Mario Agnoli nel suo saggio Il plebiscito, apparso nel volume collettaneo Veneto 1866, edito da il Cerchio nel 2016.
Con il plebiscito programmato per il 21 e 22 ottobre 1866 le popolazioni del Veneto, del Friuli e del Mantovano furono chiamate ad esprimersi rispetto ai loro destini e, in linea teorica, esisteva anche la possibilità di votare "No" all’annessione. Il plebiscito era uno strumento caro a Napoleone III, che lo riteneva conforme alle radici del suo potere; tuttavia pare che in Italia, nel 1866, una porzione della stampa anti-unitarista avesse dimenticato che simili votazioni avevano un significato puramente simbolico: servivano esclusivamente ad attribuire un valore di volontà popolare a decisioni già prese. Benché plebiscito significhi "decisione del popolo", infatti, i risultati di queste consultazioni conferivano solo un’investitura ulteriore a quel potere che i loro organizzatori già detenevano.
La stragrande maggioranza dei veneti, inoltre, era favorevole all’unificazione e i legittimisti asburgici (in massima parte funzionari) erano pochi e ben conosciuti in tutte le città della regione. Va poi osservato che per un sostenitore dell’Impero d’Austria votare No non avrebbe avuto senso, poiché anche questo gesto avrebbe contribuito a legittimare il plebiscito. In un articolo precedentemente pubblicato su Sololibri, La possibile influenza del revisionismo storico nel romanzo “Non tutti i bastardi sono di Vienna” di Andrea Molesini, abbiamo già citato il caso di un sacerdote, don Antonio Riva (1806-1882), prete di Coseano, che nel 1866 incitò i propri parrocchiani a votare per il No; tuttavia la maggior parte dei religiosi veneti seguì le direttive dei vescovi, i quali (in nome del mantenimento dell’ordine pubblico) indicarono di far votare la plebe per il Sì.


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Prima del plebiscito, comunque, i preti considerati più intransigenti nelle loro idee politiche furono intimoriti e disarmati da severi provvedimenti messi in atto nei loro confronti dai commissari regi. Nel Vicentino, ad esempio, Antonio Mordini (1819-1902) fece ispezionare il seminario, arrestare il canonico Eugenio Meggiolaro (1822-1895), licenziare dal Liceo Pigafetta don Andrea Scotton (1838-1915) e allontanare ben cinque preti da altrettante parrocchie (Ermenegildo Reato, Il Vescovo Farina tra intransigenti e liberali, in Il Vescovo Giovanni Antonio Farina e il suo istituto nell’Ottocento veneto, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1988, p. 335, n. 7).
Nel suo saggio, Agnoli spiega tali provvedimenti contro i sacerdoti accusati di essere pronti a fare propaganda per il No chiarendo che
Probabilmente li si sospettava non tanto di essere a favore dell’Austria, e ancor meno della Repubblica, ma di volere diminuire con un’alta percentuale di voti negativi il significato del consenso all’annessione per avversione all’Italia ufficiale.
Si trattava insomma di fedeltà al Papa e di antipatia per il governo italiano, non di secessionismo.
Le opinioni della stampa sugli eventi
Va anche premesso che nel Veneto austriaco nel 1865-66 esistevano pubblicazioni filogovernative, ma – almeno da quanto chi scrive ha potuto sino ad oggi appurare con le sue ricerche – non vi erano giornali di impronta apertamente reazionaria, poiché l’Impero, seriamente preoccupato per il mantenimento dell’ordine interno, censurò anche gli slanci ’troppo entusiasti’ a favore di Vienna. Basti pensare che il periodico padovano Letture Cattoliche, nato nel 1864 e che mai presentò articoli di carattere schiettamente politico, fu costretto dal governo asburgico a cessare le pubblicazioni all’inizio della terza guerra d’indipendenza. Tra i collaboratori della sfortunata rivista vi era anche Monsignor Pietro Balan (1840-1893), scrittore nativo di Este, che ebbe problemi con gli austriaci anche per un suo giornale: La Libertà Cattolica di Venezia. Nel suo libro La vera realtà delle cose, dei fatti, della lotta presente in Roma ed in Italia (terza edizione, Imm. Concezione, Modena 1891) egli testimonia che:
quel povero giornale, che tante difficoltà ebbe a provare dall’Austria per sorgere, adoperò la poca libertà possibile nella difesa della giustizia, anche a costo di processi minacciati dal governo e ricacciando in gola, fra altri, a gente venduta davvero le ingiurie che vomitava contro i cattolici veneti, e censurando persino gli atti del governo allora vestito da liberale per le influenze dello [Anton von] Schmerling [1805-1893] che dava libertà ai massoni.
Dei toni polemici verso l’unificazione portata avanti dai Savoia poteva permetterseli la Gazzetta Uffiziale di Venezia, ma con la vittoria degli italiani essa rinnovò la sua redazione, e dal 5 ottobre 1866 il quotidiano apparve col nuovo titolo di Gazzetta di Venezia, senza lo stemma austriaco.
“Il Veridico”, un giornale romano favorevole alla nascita di uno stato veneto
Durante le giornate di studio trascorse nelle biblioteche, lo scrivente non ha reperito presso i giornali veneti dell’epoca particolari sbilanciamenti sulla questione del possibile voto negativo, mentre si sono rivelati assai più interessanti gli elementi emersi consultando testate di altre aree della Penisola.
Il primo giornale che va menzionato è Il Veridico, un battagliero foglio cattolico pubblicato a Roma, che si presentava come "popolare", ossia rivolto anche ai ceti più umili. La provenienza geografica del giornale è un aspetto significativo, che va tenuto particolarmente in considerazione: il Lazio apparteneva ancora al Papa ed era protetto dalla Francia, che vi esercitava un’influenza politica.
Tra le pagine del detto giornale il 9 giugno del 1866 apparve un articolo intitolato Franco giudizio, in cui viene inizialmente chiarita la posizione dei redattori davanti alle mire italiane sul Veneto:
nella quistione di diritto, se ella si agitasse tra Venezia e l’Austria, noi, assai più logicamente de’ nostri sedicenti patrioti, parteggeremmo per la prima anziché per la seconda, non già rendendoci consiglieri di violenta e inutile ribellione ai Veneti ma piuttosto di spontanea Cessione al Sire austriaco.
Dopo tale premessa, l’anonimo giornalista papalino si appellò ai principi del legittimismo opponendosi al concetto moderno di nazione e facendo delle prime allusioni alla scomparsa Repubblica Veneta:
il diritto di Venezia non è quello dell’Italia presente, perché Venezia quando soggiacque alla forza napoleonica [nel 1797], non era già una parte o una provincia del nascituro regno d’Italia, ma uno Stato autonomo e governato a repubblica. Saremmo curiosi d’intendere dai generosi redentori della Venezia, se essi vanno per vendicarne l’autonomia, e ripristinarne le forme repubblicane. Ma tenendo già in saccoccia, prima che si faccia, il plebiscito di annessione, essi diranno che sono mossi dal diritto comune di nazionalità.
Or cotesta nazionalità che è divenuta un fanatismo del secolo, ed una speciosa maschera allo spirito sovvertitore delle Sette, è quello che va ben definito nei suoi elementi e nei suoi limiti, per poi applicarlo al nostro caso.
Viene spontaneo sospettare che le parole del giornale (oltre che basate sull’illusione che gli italiani potessero restare lontani da Roma a causa di una possibile crisi nel Veneto) fossero emanazioni delle mire dei francesi, che avevano soldati e agenti nella città eterna.
L’11 agosto 1866, un giorno prima della fine della terza guerra d’indipendenza, il giornale romano pubblicò un nuovo articolo: Ai Veneti, il quale riprende le riflessioni del precedente con toni ancor più decisi. Eccone i punti salienti:
Oh quanto desidereremmo che la Venezia sentisse in questi momenti la coscienza dei suoi diritti ed avesse il coraggio di ben usarli! A noi sembra un dovere il rammentarglieli. Pur troppo è vero e incontrovertibile che la Venezia, emancipata una volta dal dominio austriaco, torna repubblica qual era anteriormente a que’ trattati che con frode e prepotenza le tolsero la sua legittima esistenza politica. Noi facciamo onore all’Imperatore d’Austria, pensando che egli con siffatta cessione [alla Francia] abbia inteso di rendere la Venezia, primacché ad altri, a sestessa [sic], ripudiando l’ingiusto retaggio de’ Preliminari di Leoben [17 aprile 1797] e del trattato di Campoformio [17 ottobre 1797]; retaggio cui non valse a legittimare il trattato di Vienna [si intende il Congresso di Vienna (1814-1815), ndA], restauratore non abbastanza giusto ed imparziale dell’Europa legittima. Ne’ l’aver ceduto alla Francia arguisce nell’Imperatore d’Austria la volontà di far della Venezia una provincia francese.
Si sosteneva insomma che la presenza dei francesi nelle trattative sul destino della Venezia servisse solo da garante per la libertà dei veneti nella scelta del loro futuro. Trascurando il fatto che la cessione riguardava anche Mantova (un territorio che non aveva fatto parte della Serenissima), il ragionamento di fondo, quello della "Venezia ceduta a se stessa", non si regge in piedi. Lo dimostra chiaramente Agnoli, che nel suo saggio ribadisce che
il passaggio del Veneto all’Italia era un dato di fatto ormai acquisito per tutta l’Europa e in particolare per l’Austria, che aveva concordato con Firenze le modalità di trasferimento e regolato i reciproci rapporti di dare e avere, incluso il passaggio di consistenti somme di denaro.
Non si può quindi affatto affermare che il Veneto sia stato realmente ceduto a se stesso:
In realtà non era prevista alcuna alternativa al Veneto italiano, perché al momento del plebiscito nessuna alternativa era né prevedibile né possibile. È già azzardare molto supporre qualche inconfessata, e in realtà indimostrata, speranza della Francia in un esito diverso da quello previsto.
Probabilmente ne erano consapevoli anche i giornalisti de Il Veridico, ma rivolgendosi direttamente ai veneti con simili teorie è palese che questi anonimi redattori sperassero di creare delle complicazioni all’annessione della Venezia, magari suscitando delle insurrezioni. Non sappiamo con esattezza quanto Il Veridico fosse letto fuori dai territori del Papa, nel 1862 però il giornale era stato pubblicizzato da La Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti, e nel Veneto esisteva una buona rete di pubblicazione e divulgazione di testi legittimisti, come chi scrive ha dimostrato nel suo saggio La stampa legittimista e carlista a Venezia e nel Veneto, recentemente pubblicato nella nuova edizione del libro di Luis De Mon y Velasco (1826-1878), Il Diritto di Carlo VII al Trono di Spagna (Solfanelli, Chieti 2024). Non è quindi da escludere che Il Veridico potesse arrivare senza difficoltà anche nelle canoniche venete.
Ciò detto, il 1° settembre 1866, quando appariva ormai indiscutibile che il Veneto sarebbe stato ceduto all’Italia, Il Veridico rincarò la dose con l’articolo Il trionfo de’ paralogismi, in cui si legge che:
La Francia, che accorre generosamente dovunque si combatte per un’idea, nega il suo patrocinio alla più nobile delle idee, al risorto Leon di S. Marco ricoveratosi sotto le ali della sua aquila imperiale [...] il Leone di S. Marco sta per essere incatenato la seconda volta su l’altare della Rivoluzione. Vorremmo almeno ch’egli faccia udire il suo ruggito contro la mano ignobile che lo incatena.
Un altro editoriale del 7 settembre, intitolato Il plebiscito dei veneti, sembra cercare ancora una volta di spingere gli abitanti della Venezia a una qualche forma di contestazione:
un plebiscito fatto sotto la custodia amorosa di cinquantamila baionette, sotto la premurosa vigilanza dei commissari regi, colla solerte cooperazione dei regi questori, colla immagine sempre viva dei regi gendarmi, e colla lontana prospettiva di una regia legge Crispi, di giuoco di mano addiviene per la Europa una vera farsa, cui non si ammette né si ammetterà il più meschino valore [...] i Veneti forse rimpiangeranno invano di non aver saputo cogliere l’occasione propizia per intonare unanimi nel palazzo dei loro Dogi il glorioso grido di Viva S. Marco!
Nel 1866 Roma era ancora territorio dello Stato Pontificio e quelli de Il Veridico speravano che restasse tale per sempre; il governo italiano non poteva fermare i loro proclami, e così essi proseguirono imperterriti la loro protesta il 15 settembre con un ulteriore appello:
Può sperarsi che il popolo veneto tragga profitto dall’esempio presente degli altri stati d’Italia e dalle rimembranze ancor recenti della sua storia. Vi ha pur troppo chi sorride beffardamente a questa speranza; e cotanti befferdi sono eglino appunto che sanno come si giuocano le sorti de’ popoli, come oggidì, con l’oro in una mano e col vessillo di libertà nell’altra, si giunga a far servo qualunque popolo e suicida di sestesso [sic]. Ma noi, la Dio mercè, crediamo ancora alla possibilità della virtù umana, alla coscienza de’ popoli, agli spiriti non ancora morti dell’Italia, al valore non del tutto spento del Leone di S. Marco.
Il richiamo dei clericali romani al Leone di San Marco in chiave anti-risorgimentale è piuttosto curioso, considerando che l’eredità di quell’illustre simbolo era contemporaneamente rivendicata pure dai sostenitori dell’unità d’Italia, anche con la prospettiva di un’espansione italiana in Istria e Dalmazia.
Degna di un romanzo ucronico è una sparata del 28 settembre sulle trame di misteriosi agenti mazziniani, talmente grossa che gli stessi giornalisti de Il Veridico la commentarono con un punto di domanda:
Leggiamo nello Stendardo Cattolico: la France [giornale d’oltralpe] annunzia che Mazzini è in Isvizzera e che di là fa agire certi suoi fidi nella Venezia pel ristabilimento dell’antica repubblica, della quale egli sarebbe nominato doge.
Le rivolte violente o nonviolente sottilmente auspicate da chi stava dietro alla testata de Il Veridico, tuttavia non avvennero mai: nel mese di settembre Mordini espresse a Bettino Ricasoli (1809-1880) delle vaghe preoccupazioni riguardo la presenza di fantomatiche spie francesi a Venezia e a Padova, a livello fattuale però nel Veneto non esisteva alcun movimento indipendentista e anti-italiano, ma solo un ridotto numero di “austriacanti” e un buon gruppo di cattolici intransigenti fedeli a Pio IX. Così, quando si fu prossimi alla votazione, il 20 ottobre, Il Veridico poté solo satireggiare l’avvenimento pubblicando un dialogo tra un abate e un liberale, in cui il religioso afferma che il plebiscito veneto "fa sganasciar dalle risa tutta l’Europa e farà ridere per tutt’i secoli avvenire la storia".
Lo Cuorpo de Napole e lo Sebbeto: un giornale partenopeo smorza i toni
Rivolgendo lo sguardo verso il Meridione, quindi a un territorio che, a differenza del Lazio, faceva già parte del Regno d’Italia, particolarmente interessanti e meritevoli di essere messe a confronto con i discorsi apparsi su Il Veridico sono le posizioni di un colorito giornale partenopeo: Lo Cuorpo de Napole e lo Sebbeto, nato nel 1860 e scritto interamente in napoletano. Va premesso che si trattava di una pubblicazione di ispirazione garibaldina, che tuttavia, col tempo, iniziò a presentare articoli di denuncia verso alcune conseguenze negative dell’unificazione sulla città di Napoli.
Il 23 luglio 1866, Lo Cuorpo citò le supposizioni circolate sulla stampa francese riguardo la possibile ricostituzione di una repubblica veneta, mettendo in ridicolo la notizia in questi termini:
Propone de rennere la Venezia na repubblica. E bravo! La penzata è bella, degna de no francese. Non potevano li Legittemiste de la Francia trovà na penzana cchiù bella, cchiù bona, cchiù aggrazziata pe levà la Venezia da mano a la legittima patrona, ch’è ll’Italia.
Che tradotto in italiano significa:
Propongono di rendere la Venezia una repubblica. E bravi! La pensata è bella, degna di un francese. Non potevano i legittimisti francesi trovare una panzana più bella, più buona, più graziosa per togliere Venezia di mano alla sua legittima padrona, che è l’Italia.
Alcuni giornali francesi continuarono a dare notizie simili, e si può citare il quotidiano La Presse, che il 30 luglio 1866 pubblicò un articolo dai toni ambigui sulla preparazione del plebiscito nella città di Venezia, lasciando intendere che vi potesse esistere qualche ’separatista’:
Conosciamo il paese e abbiamo interrogato la gente. Nessuno ignora la storia e le tradizioni di questa vecchia e nobile città. Che gli italiani siano prudenti; che scelgano tra i Veneziani degli agenti capaci di alzarsi di buon ora e di far sfilare, il giorno dello scrutinio, una bella parata di truppe in Piazza San Marco in modo che la folla entusiasta vada a votare con gli occhi rallegrati dallo spettacolo delle forze nazionali e con le orecchie accarezzate da salve di artiglieria.
Il 1° agosto, con un dialogo politico, Lo Cuorpo tornò sulla questione della possibilità che i veneziani fossero chiamati a scegliere tra l’annessione all’Italia e la costituzione di uno stato separato, cioè un vice-regno francese; ma questa prospettiva venne definitivamente screditata con un secondo dialogo, il 25 agosto 1866, in cui si sottolineò l’inutilità della votazione, "na commedia bella e bona", a fronte dell’evidenza che l’annessione del Veneto all’Italia era già stata irrevocabilmente stabilita.
Le satire del giornale torinese “Il Fischietto”
Dando uno sguardo alla stampa più decisamente nazionalista, nel Piemonte la notizia di un plebiscito per il Veneto adirò il giornale torinese Il Fischietto, che il 19 luglio 1866 definì l’idea della consultazione un insulto al patriottismo:
I diplomatici, quelle teste fine, pare che vogliano il plebiscito per la Venezia. Sono le solite contraddizioni. Vogliono domandare agli italiani se vogliono essere italiani.
Il 21 luglio Il Fischietto non nascose forti preoccupazioni per la possibilità di un Veneto separato dall’Italia e sotto protettorato francese:
Evviva il genio della gran nazione! A Parigi si succhiano già i sorbetti di Venezia, e le donne della società elegante portano in petto la spilla di San Marco. I Parigini dovrebbero andare più in là. Antichissimamente, era molto celebre nella Venezia una razza d’asini d’una bellezza particolare. Gli asini di Venezia – Non ne dubitiamo – farebbero in Francia una fortuna invidiabile.
Il 2 agosto, riguardo le trattative in corso, il giornale di Torino la buttò sul ridere attaccando le illazioni dei pubblicisti francesi su uno stato veneto separato:
ecco i preliminari della pace, quali almeno Mamma Agata [un personaggio della commedia "Le inconvenienze teatrali" (1800) del padovano Antonio Sografi (1759-1818), ndA] desidera, vuole; e quando vuole può. Il Veneto sarà ordinato in una Dodecarchia, a somiglianza di quella degli antichi faraoni d’Egitto: solamente, invece dei faraoni, la nuova Dodecarchia sarà retta da dodici invalidi francesi, sotto la presidenza di un doge. Il doge abiterà a Venezia: il padre [Louis] Veuillot [(1813-1883), giornalista e romanziere] sarà il primo a sostenere questa carica illustre. A’ suoi fianchi siederà un Consiglio di tre inquisitori, due francesi e un italiano, cioè i direttori della Presse, della France e dell’Unità: monsù [Adolphe] Thiers [1797-1877] verrà assunto all’onorevole ufficio di storico nazionale.
Sulle reali opinioni dei personaggi menzionati riguardo l’autonomia di Venezia sarebbe necessario svolgere ulteriori ricerche, al fine di comprendere se questa parodia abbia qualche fondo di verità.
La propaganda unitarista nel Veneto
Riguardo invece alla propaganda italiana attiva in Veneto, chi scrive non ha riscontrato repliche o controrepliche degli unitaristi alle illazioni dei giornali francesi o del romano Il Veridico. Anzi, il 17 ottobre 1866 la Gazzetta di Verona scrisse testualmente che
[votare] Sì, vuol dire essere italiano ed adempiere al voto dell’Italia. No, vuol dire restare veneto e contraddire al voto dell’Italia
e quasi le stesse parole furono stampate su un manifesto che venne affisso per le vie della città scaligera. A ben vedere, queste parole avrebbero potuto generare confusione in alcuni lettori ed essere collegate all’ipotesi astratta di uno stato veneto separato, ma in realtà volevano avere tutt’altro valore.
Per comprendere il significato del messaggio, va tenuto conto che a quel tempo nel linguaggio degli italianissimi (ossia i nazionalisti italiani) "veneto" era un aggettivo che poteva talvolta assumere un significato negativo quando veniva impiegato per designare un sentimento di appartenenza puramente regionale e municipale, ossia "più piccolo" del patriottismo italiano. A testimonianza di ciò, si possono riportare alcune esternazioni del politico padovano Alberto Cavalletto (1813-1897), che fu la guida del comitato veneto segreto: l’associazione rivoluzionaria che cospirò per anni con l’obiettivo di preparare l’annessione della Venezia all’Italia. Parlando alla Camera dei Deputati, durante le discussioni del 7 marzo 1882, per scrollarsi di dosso possibili accuse di regionalismo, egli disse:
Io sono italiano, non sono veneto. [...] Quanto a me, sebbene sia nato nel Veneto, non ho preferenze regionali, e di spirito sono italiano.
Cavalletto era un uomo cresciuto nell’ammirazione per la storia di Venezia ed era famoso per il fatto che a volte si espresse alla Camera dei Deputati parlando in padovano; ciononostante anche dopo il compimento dell’unificazione continuò a dichiararsi estraneo a sentimenti localistici, e in quella specifica discussione aggiunse:
Non sono regionalista punto. Se dovessi discorrere del Veneto, molto avrei a dire e dovrei dimostrare che questa parte d’Italia invece d’essere stata vantaggiata dalla classificazione delle sue opere idrauliche, ne fu assai danneggiata; ma non deviamo dal nostro proposito.
I risultati del plebiscito veneto commentati da “Il Fischietto”
Tornando ai fatti del 1866, come abbiamo già scritto, votare No al plebiscito non aveva senso neppure per i sostenitori dell’Austria, e non esisteva una forza “antisistema” organizzata e desiderosa di creare una nuova repubblica veneta. Per giunta è ben noto che la popolazione sia stata spinta dai parroci e dalla propaganda a votare per il Sì, e gli storici non negano che vi possano essere stati brogli o alterazioni nel conteggio dei voti. Anche per merito delle condizioni in cui si svolsero, quindi, i risultati delle votazioni furono schiaccianti: 641.758 persone si espressero per il Sì e solo 69 individui per il No.
Soffermandoci sul caso della città di Venezia, lì i Sì furono 36.500 o 36.533 (a seconda delle fonti) e i No 7 (gli unici voti negativi in tutta la provincia della ormai ex capitale).
Questi pochi contrari, sebbene inoffensivi, provocarono gli strali del già menzionato giornale Il Fischietto, il quale sabato 27 ottobre 1866 pubblicò in prima pagina l’articolo I sette no del Plebiscito veneziano, esplicitamente canzonatorio:
Quando abbiamo veduto il dispaccio della vedova Agenzia Stefani [il fondatore Guglielmo Stefani era morto a Torino l’11 giugno 1861, ndA] comunicante all’Europa – che ci guardava, senza dubbio – i voti dei figli di Pantalone, non abbiamo potuto trattenere una di quelle esclamazioni che piacciono tanto ai veneziani. Oss...teria! abbiamo esclamato! 34.004 [sic] pel sì e 7 pel no! Chi diavolo saranno mai quei sette? E perché mai hanno voluto crescere il numero dei sette? Avevamo i sette sapienti, i sette dormienti, i sette peccati, i sette sacramenti, ecc. ecc. Ora potremo aggiungere i sette austriacanti o i sette rinnegati che si vogliano dire.
L’anonimo giornalista, che nel brano si firmò con lo pseudonimo di Fra Ilario, indugiò quindi nell’ironia, provando a identificare i sette dissidenti:
I primi quattro No, i più sinceri e spontanei sarebbero quelli del boja: questo rispettabile agente che aveva tanto da lavorare sotto l’ex-imperiale regio governo, sorseggiando il caffè con qualche imperiale regio commissario, avrebbe sentito parlare vagamente dell’abolizione della pena di morte nel Regno d’Italia.
In realtà in Italia l’abolizione delle condanne capitali è entrata in vigore solo il 1° gennaio 1948, ma il redattore de Il Fischietto volle mettere in risalto la presunta magnanimità dei Savoia rispetto al rigore della giustizia asburgica.
Il burlone proseguì scrivendo che:
Il quinto NO sarebbe quello di Sua Eminenza [Giuseppe Luigi] Trevisanato [(1801-1877), Patriarca di Venezia dal 1862 al 1877] che si potrebbe anche dire Tre-visi-nato. Perché cambia viso secondo le circostanze...e i litri di vino che ha in corpo il popolo sovrano che fischia sotto le sue finestre. Anche Sua Eminenza si sarebbe indotto a quella votazione, in conseguenza di un ragionamento. Questo NO, avrebbe detto il Reverendissimo, questo NO, nessuno sa che io lo do, perché la votazione è segreta. Mettiamolo adunque nell’urna e diamo questo ultimo segreto sfogo al nostro povero cuore.
Checché ne dica il giornalista, il voto del 1866 non avvenne in condizioni di segretezza e questo aspetto fu preso a pretesto dai giornali francesi per nuove polemiche, ma di ciò tratteremo più avanti. Va ricordato soprattutto che il Patriarca Trevisanato non era un fautore del No, ed anzi spinse i preti veneziani a far votare i fedeli per il Sì.
Il sesto No fu attribuito da Il Fischietto al commissario di polizia Giovanni Bussolin, un veneziano al servizio degli austriaci, che è stato ritratto dalla stampa nazionalista italiana come l’aguzzino dei rivoluzionari:
Un servo tanto fedele poteva abbandonare i padroni nella disgrazia?
Si tratta tuttavia di una battuta, poiché il Bussolin abitava già da anni a Trieste (cfr. Riccardo Pasqualin, La spedizione dei Mille e gli oppositori del Risorgimento a Venezia, in «Storia Veneta», n. 66, anno XIV, aprile 2022, pp. 45-55).
Venendo al settimo, secondo Fra Ilario:
Il settimo NO finalmente si crede che sia quello del corrispondente veneziano dell’Umidità Cattolica.
Nome inventato per deridere il giornale L’Unità Cattolica.
L’articolo termina con una riflessione beffarda:
A qualche cosa intanto anche questi voti hanno servito. A rendere, per esempio, più comica la farsa, perché oltre a un brillante francese, vi furono anche sette buffoni.
In un altro brano satirico del 6 novembre – questa volta senza fare nomi – Il Fischietto irrise anche i 69 contrari di tutto il Veneto, descrivendoli sempre come pensionati austriaci e personaggi caricaturali legati al regime asburgico da interessi prettamente materiali.
È più interessante un trafiletto del 15 novembre 1866, il quale riporta che tra la stampa cattolica francese qualcuno protestò per le irregolarità nel plebiscito veneto, secca fu la risposta de Il Fischietto:
I giornali francesi della religione e dell’ordine [in un articolo del 20 novembre sarà chiamata in causa la testata l’Union, ndA] incominciano la loro crociata contro il plebiscito veneto, dichiarandolo costretto e per conseguenza illegale. Sarà. In questo caso, il plebiscito veneto non sarebbe che una parodia. O meglio una scimmiottaggine del plebiscito di Nizza. Così i francesi rimangono sempre maestri agli italiani... nelle arlecchinate.
L’inutilità dei voti negativi
Secondo Angoli, se anche avessero vinto i No la Venezia non sarebbe comunque diventata automaticamente uno stato indipendente:
[In caso di vittoria del No,] pur se nulla era stato previsto dal momento che tutti consideravano più che scontato il risultato, l’unica soluzione ipotizzabile, quanto meno in prima battuta, era il ritorno del Veneto alla Francia, nella sua funzione di garante. Tuttavia, proprio perché tale e soltanto tale, questa non avrebbe potuto tenerlo per sé, ma, verosimilmente, avrebbe dovuto organizzare una Conferenza di tutti gli Stati interessati per trovare un accordo. In questo caso, dovendosi tenere conto della volontà popolare contraria all’annessione all’Italia, la soluzione più corretta e più conforme alle solenni proclamazioni sulla volontà dei popoli, poteva essere davvero, ma solo dopo questo passaggio, la ricostituzione dell’antica Repubblica.
Ma quest’ultimo caso era una prospettiva assolutamente remota, tanto che La Civiltà Cattolica – che non era certo una pubblicazione progressista – scrisse che votare per il No significava scegliere il caos.


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Riguardo il tema del plebiscito veneto, nel 2016, per la casa editrice Biblioteca dei Leoni, la studiosa Angela Maria Alberton ha pubblicato il saggio Dalla Serenissima al Regno d’Italia, che presenta il difetto di un titolo non adeguato per descrivere gli anni dell’ultima fase della dominazione austriaca nella Venezia (la Serenissima non esisteva più dal 12 maggio 1797), ma che malgrado ciò resta uno studio completo, e che nella sua conclusione ha posto nuovi interrogativi per i ricercatori. Nell’ultimo capitolo, prima dell’appendice, la storica dichiara infatti:
Non bisogna però pensare che i veneti accettino passivamente l’annessione. Anche se non si può parlare di una vera e propria corrente antiunitaria, esistono degli atteggiamenti critici che bisognerebbe approfondire meglio.
Col presente articolo, lo scrivente si augura di aver offerto qualche spunto per provare a contribuire a questa indagine.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Veneto 1866: le ipotesi dei giornali sulla possibile nascita di una repubblica separata
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