Gli dèi torneranno
- Autore: Carlo Sgorlon
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Mondadori
Gli dèi torneranno, pubblicato da Mondadori nel 1977, è probabilmente il romanzo più rappresentativo (anche se non il migliore) della produzione dello scrittore friulano Carlo Sgorlon (1930-2009).
Protagonista del libro è Simone, che dopo essere emigrato in Ispanoamerica fa ritorno nel suo Friuli, riscoprendolo gradualmente. Questa terra, con la sua leggenda e i suoi miti, è infatti il centro della narrazione. Nei racconti popolari il Settecento e l’Ottocento sono solo nomi vaghi, che indicano età indefinite:
“Il popolo non aveva una storia scritta come quella che si trova sui libri. D’altra parte, pochissime delle cose che ad esso erano accadute nel corso dei secoli gli storici le avrebbero giudicate degne di figurare nei loro volumi. Il popolo per raccontare la sua storia aveva le canzoni, le leggende, le favole, e non aveva bisogno di ricordare tutto perché le vicende d’amore, la carestia, l’emigrazione, l’invasione, l’alluvione, il terremoto, la miseria, la malattia, la morte, la guerra, si ripetevano ciclicamente. Il popolo non credeva nel progresso storico.”
Nella cultura rurale, quindi, il tempo è ciclico, fatto di ritorni e di ripetizioni, questo è il significato del titolo, dove gli dèi stanno a indicare una fantomatica età dell’oro.
La storia del Friuli è popolata prima dai Celti, in seguito sconfitti dai "malvagi" Romani, poi dal “glorioso Patriarcato”, soppresso dai Veneziani nel 1420. Quest’ultimo evento rappresenta nel romanzo la morte del Friuli, ma le ragioni di tale giudizio arbitrario non sono particolarmente chiarite, né approfondite. Non pare che da un governo all’altro le condizioni di vita dei contadini siano cambiate poi molto, ma siamo al cospetto di un’opera narrativa, non storica, a cui non è richiesto di motivare queste interpretazioni. Gli ultimi due regimi citati sono ovviamente l’Austria e l’Italia (dipinte sempre con toni negativi).
L’Impero, ad esempio, reclutava i suoi soldati tra i ragazzi con stratagemmi poco limpidi:
“Per obbligare i giovani a fare i militari di carriera [...] [gli austriaci] Cercavano di coglierli in qualche situazione un po’ equivoca, mentre erano ubriachi, durante una sagra, oppure mentre stavano pescando di frodo in un lago. Li mettevano in galera inventando artificialmente la gravità della loro mancanza. Poi, quando si erano ben bene stagionati in carcere, quando erano al limite della tolleranza, tra mura umidissime e sbarre arrugginite, allora li obbligavano a scegliere tra la galera e la carriera militare. Così essi facevano la loro croce di analfabeti sotto il foglio dell’impegnativa, ed erano in trappola per sempre”.
Il testo parla di “schiavitù veneziana” a “cui sarebbe seguita quella austriaca, e poi quella italiana e quella fascista”, con una semplificazione che può anche rivelarsi pericolosa (soprattutto nella troppo stringente associazione Italia-fascismo). Viene davvero da chiedersi se il Patriarcato, qui eretto a santuario dell’“autonomia” furlana, fosse uno stato magico in cui i letti dei fiumi erano ricolmi di salumi e i poveri ballavano attorno agli alberi della cuccagna.
Gli accenti anti-austriaci, anti-veneti e anti-italiani che si ritrovano nell’opera hanno certamente nutrito i discorsi pseudostoriografici dell’etnonazionalismo friulano di recente formazione, differente dall’indipendentismo triestino.
Come si sarà compreso, le frequenti meditazioni prevalgono sulla trama, che si stempera sullo sfondo riducendosi quasi a cornice delle tante riflessioni proposte: la storia in sé non appassiona. Questo è il maggior difetto del lavoro, che tuttavia non manca di idee valide, le quali avrebbero potuto essere sviluppate con maggior serenità.
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