La fenomenologia consente davvero di conoscere noi stessi quando chiamiamo in causa le emozioni del nostro vivere quotidiano? Ho cercato di rispondere a questa domanda soffermandomi brevemente sulle posizioni di alcuni filosofi così come esse emergono dal testo di Antonio Delogu Questioni di senso. Tra fenomenologia e letteratura (Donzelli editore, 2017).
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Iniziamo da Alberto Caeiro, eteronimo di Fernando Pessoa: egli afferma che bisogna disimparare a conoscere per concetti e poi, appropriandosi del contatto diretto con le cose, bisogna conoscere per sensazioni. Bisogna cioè diffidare dei pensiero astratto e immedesimarsi nelle cose arrivando così a provare lo stupore di un bimbo. Ciò porta a vedere in presa diretta come stanno le cose e non esclude uno sforzo intellettuale del soggetto pensante ovvero la coscienza delle cose stesse. Caeiro vuole avvicinarsi direttamente alle cose evitando il più possibile di dare un nome alle sensazioni ovvero, direi, di subordinarle al proprio io.
Alvaro de Campos, altro eteronimo di Pessoa, ritiene che il soggetto debba sentire la natura, ovvero percepirsi come esperienza di essa. Per De Campos il soggetto conosce non le cose, ma le sensazioni e nulla si dà al di fuori di esse. In questo modo De Campos crede nell’indistinzione tra uomo e natura e, tentando di sentire il tutto, arriva a perdersi nel mondo dell’immaginazione poiché egli insegue le sensazioni che sono infinite evitando così il blocco della forma di pirandelliana ascendenza.
Per Bernardo Soares, sempre un eteronimo di Pessoa, non c’è verità, né menzogna perché il mondo è inconoscibile in quanto avvolto dal mistero. In fin dei conti gli eteronimi salvano Pessoa dal rischio dell’alienazione della società di massa.
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Borges invece intende indagare il senso di questioni filosofiche come il destino, il rapporto tra sogno e vita, il concetto di esistenza e, nel fare ciò, non si affida a un metodo strutturato, ma all’intuizione e all’immaginazione in modo che io e realtà si compenetrino a vicenda rimanendo sempre avvolti dal dubbio riguardo l’ontologia che dovrebbe invece accomunarli. Il pensiero di Borges si affida a uno stile immaginifico e arriva a concludere che “tutto è fantastico e che il senso della vita è il sogno”, ma anche che
conviene credere nella possibilità di creare il proprio avvenire, nella possibilità di modificare il proprio futuro, [che] per continuare a vivere dobbiamo credere al libero arbitrio, [e che] forse l’avvenire dipende veramente da noi.
(Jorge Luis Borges, “Testamento poetico-letterario”, Giunti, Firenze 2004, pp.31-34)
Severino narra la storia dell’Occidente facendo riferimento agli Immutabili, al Divenire, all’Apparire e allo Scomparire della Verità e perciò chiama in causa il principio di non contraddizione. È evidente la concezione metafisica che Severino ha dell’Essere:
L’Occidente, divenuto folle per la fede nel Divenire, rinsavisce infine per l’Apparire della Verità del Tutto Eterno.
Scrive Cornelio Fabro in L’Alienazione dell’Occidente. Osservazioni sul pensiero di E. Severino (Quadrivium, Genova 1981, p.145-148):
I libri di Severino sono in continuo aumento, non sono che l’identico ritornello del Tutto […] e la musica continua su questo tono per centinaia e centinaia di pagine per sfociare per altre centinaia di pagine in quisquilie (assai discutibili) di etimologie comparate.
Fabro afferma giustamente che Severino scrive tanto senza chiedersi per chi, dato che tutti sono avvolti nell’oscurità dell’estrema Follia del credere che Tutto sia Niente.
L’Occidente vive prima nella convinzione che tutto sia divenire, che ogni cosa venga dal Nulla e ritorni al Nulla. Poi, a causa dell’angoscia che consegue a questa convinzione, si rifugia nella Verità degli Immutabili, rendendosi conto però, che gli questi ultimi lo privano della libertà e, quindi, del futuro. Si libera, quindi, degli Immutabili affidandosi alla Tecnica che lo conduce però verso l’abisso del nichilismo di cui l’Occidente non si accorge. Infatti la Tecnica, strutturando paradossalmente il Divenire nel senso che proietta l’uomo verso uno sterile determinismo, solleva questi dal dubbio metodico che egli deve necessariamente avere in quanto ente e ne consegue la sua ignoranza del Nulla che rappresenta così la Follia dell’Occidente. Il punto di vista di Severino desta enormi perplessità perché fondato sul principio di non contraddizione per cui ogni ente è e non può non essere ed è perciò sempre stato e sempre sarà; la morte è solo illusoria apparenza poiché la persona che muore scompare semplicemente dalla nostra vista. Da ciò consegue che la morte è l’effetto del divenire ovvero il manifestarsi dell’eterno e, allo stesso tempo, il suo assentarsi, il tutto in virtù del principio di non contraddizione. Ma come afferma Merleau-Ponty la filosofia di Severino:
non chiama in causa gli uomini [...] ciò che vi è in essa di insopportabile è occultato dietro la facciata rispettabile dei grandi sistemi.
(Maurice Merleau-Ponty, “Elogio della filosofia”, Editori Riuniti, Roma 1984, p.84)
E come faceva notare Cipriano nel De bono patientiae, nel dimostrare la verità il filosofo si rende pieno di sé invece dovrebbe sentirsi umile poiché, in questo modo, creerebbe la condizione per cogliere la verità in maniera autentica (Cipriano di Cartagine, La virtù della pazienza, Edizioni Studio domenicano, Bologna 2017, p.191). Inoltre è intuitivo e, allo stesso tempo, esperienziale che la realtà dei fatti spesso richiede non l’aut-aut, ma l’et-et; per esempio, il grigio è composto sia dal bianco che dal nero.
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Neppure nel campo della logica il principio di non contraddizione è sempre valido come dimostra la logica fuzzy (Bart Kosko, Il fuzzy-pensiero. Teoria e applicazione della logica fuzzy, Baldini e Castoldi, Milano 1995). Pigliaru ricorda spesso che Pascal affermava che ridere della filosofia rappresenta per il filosofo il vero filosofare; il filosofo che medita troppo al punto di allontanarsi dalle esperienze della realtà dovrebbe pensare alla ragazza tracia che ride di Talete avvertendolo del rischio di cadere in una buca mentre cammina per osservare non i fatti della vita reale, ma le stelle. Saper ridere delle verità assolute intuendo lo scarto tra la totalità dell’Essere e la limitata esistenza dell’ente significa cogliere se stessi e il mondo attraverso l’ironia:
L’ironia è il primo indizio del fatto che la coscienza è diventata cosciente.
(Fernando Pessoa, “Il libro dell’inquietudine”, a cura di V. Tocco, Mondadori, Milano 2011, p.267)
La filosofia che prende sul serio l’esperienza del vivere non confonde la logica con la metafisica perché, dal punto di vista fenomenologico, viene incontro alle concrete esigenze di ogni individuo. In effetti il punto di approdo della filosofia di Severino è lo stesso dell’ermeneutica di Heidegger: per entrambi ciò che conta è l’Essere e non gli esseri, per entrambi la visione sovrasensibile dell’Essere ci libera dall’angoscia derivante dal nostro limite in quanto enti. Nonostante il dogmatismo della filosofia di Severino e il frammentismo di quella di Heidegger, esse hanno in comune la reductio ad unum del pensiero occidentale che appare così viziato da una visione idealizzata e assoluta degli avvenimenti che non permette di comprendere come stanno veramente le cose.
Al contrario per Husserl filosofare significa comprendere le esperienze umane che ci mettono in comunione con il mondo. Per Husserl il filosofo non può partire da ideologie precostituite perché così facendo commette l’errore di Heidegger ovvero quello di ritenere che
l’uomo è il pastore dell’Essere... ma... che cos’è l’Essere? Esso è esso stesso. [...] l’Essere è più lontano di ogni essente e nello stesso tempo più vicino all’uomo di qualunque singolo essente. [...] L’Essere è ciò che è più vicino. Questa vicinanza resta tuttavia per l’uomo ciò che è più lontano.
(Martin Heidegger, “La dottrina di Platone sulla verità. Lettera sull’umanesimo”, Città Nuova, Roma 2000, p.95)
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Husserl nella Filosofia come scienza rigorosa afferma che se la verità fosse riconducibile ad un determinato contesto storico non sarebbe possibile per l’uomo conoscere verità universalmente condivisibili. A tal proposito è importante sottolineare come la ricerca di una verità assoluta quanto impersonale come il Dasein, connessa allo sforzo teoretico quanto alienante di edificarla in un dato contesto storico, abbia condotto Heidegger alla condivisione dell’ideologia nazista.
Hannah Arendt, in La banalità del male, afferma che l’assenza del pensare inteso come umana esperienza ha determinato i genocidi del nazismo.
Richard Rorty non ricerca la verità nella realtà oggettiva poiché crede solamente negli "erramenti" tra opinioni retoricamente persuasive arrivando così a nutrire dubbi su tutto. Per lui ogni forma di sapere è un racconto letterario che non approda a nessuna verità se non in relazione al contesto storico di riferimento. Ma Prini afferma che in questo modo
non ci commuoverebbero e non li frequenteremmo i "mondi" di Dante o di Cervantes se fossero soltanto il riflesso delle emozioni e delle invenzioni dei loro autori o la proiezione di un’epoca di cultura, di un mondo sociale.
(Pietro Prini, “L’ambiguità dell’essere”, Marietti, Genova 1989, pp.54-55)
Il messaggio di Dante è
fuori dai limiti dello spazio e del tempo [...] essendo [...] una rappresentazione universalistica della realtà umana, delle debolezze e delle grandezze dell’uomo, del suo anelito di conoscenza.
(Enrico Malato, “Dante”, Edizioni del Corriere della Sera, Milano 2015, pp.374-375)
Nonostante ciò Rorty arriva alla conclusione che la realtà, essendo mera narrazione, rappresenti un’esperienza mistica che porta alla creazione di un nuovo linguaggio padroneggiato dal soggetto pensante. Questo linguaggio porta alla valorizzazione delle idee del soggetto pensante senza però che esse poggino su un criterio oggettivo; ne consegue che non si può giungere a conoscere la verità del reale, come afferma Gianni Vattimo, poiché il linguaggio non riflette il reale, ma fornisce solo interpretazioni di esso. Invece per il fenomenologo, linguaggio e soggetto pensante coesistono perché si plasmano a vicenda.
Merleau-Ponty mette in evidenza l’importanza della langue, ma anche delle parole: il dire nasce non dal detto, ma nel detto e, attraverso l’esperienza, adegua il detto in base alla capacità creativa del soggetto pensante. Spesso un’opera letteraria descrive più fedelmente il senso di profonde verità derivanti dall’essere esperienziali.
Unamuno ci fa capire che don Chisciotte guarda e si rapporta alla realtà in modo nuovo poiché alieno da stereotipi ed esperiente dell’intuizione (Miguel de Unamuno, Commento alla vita di Don Chisciotte, Tea, Milano 1998, pp.15-16) che Bergson definisce ascetismo dello spirito, cioè ascetismo non contemplativo, ma in fieri (V. Jankélévitch, Henri Bergson, Morcelliana Brescia 1991, p.252).
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Don Chisciotte compie un atto di libertà che possiamo capire attraverso le parole di Lévinas:
Il presente è il sorgere stesso dello spirito [...] non lo incatena. Il presente è ritenuto da un nuovo presente che lo sostituisce, che a sua volta indietreggia [...] la durata è rinnovamento e libertà in ognuno dei suoi istanti. [...] Il tempo è la condizione di uno spirito libero [...] esprime la libertà stessa.
(Emmanuel Lévinas, “Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger”, Raffaello Cortina, Milano 1998, p.44)
Don Chisciotte esperisce la verità del mondo della vita, non si fossilizza nei racconti di letteratura cavalleresca di cui le sue disavventure dimostrano la vacuità. Nel mondo del conformismo sociale don Chisciotte non può che essere ridicolizzato. Il razionalismo moderno, a partire da Galileo Galilei, letto in chiave scientistico-riduzionista, guarda con distacco alla fervida immaginazione di don Chisciotte. La scelta di pensiero e di vita del fenomenologo è la stessa di don Chisciotte perché vive l’esigenza di una rinnovata epimeleia verso sé e verso gli altri. Merleau-Ponty afferma che gli scrittori destano l’attenzione del lettore perché presentano la realtà nel suo manifestarsi immediato (Merleau-Ponty, La prosa del mondo, a cura di C. Lefort, Editori Riuniti, Roma 1984, p.136) come spesso fanno i filosofi quando cioè ricorrono alla narrazione:
La forma romanzesca permette di dare una forza particolare alle esperienze speculative del filosofo.
(C. Dumolié, “Letteratura e filosofia”, Armando, Roma 2002, p.15)
Per esempio le Confessioni di Sant’Agostino trasfondono in forma poetica ciò che in filosofia rappresenta verità fondamentali. Allo stesso modo fa Dante che, attraverso il realismo figurale della Divina Commedia, ci illumina il più possibile riguardo quello che saremo dopo la morte, vissuta da lui paradossalmente attraverso l’esperienza della vita.
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Per Jung la letteratura
rappresenta una esperienza più profonda e più forte della passione umana [...] poiché essa [...] è una autentica esperienza primordiale, non cosa derivata, secondaria
(Carl Gustav Jung, “Psicologia e poesia”, Boringhieri, Torino 1979, pp.64-74)
Essa è l’istinto del fanciullino di Pascoli, ci permette di comprendere l’autenticità delle cose attraverso l’uso di un linguaggio prerazionale.
La letteratura è sempre soggettiva nella sua universalità: Ulisse, archetipo dell’uomo mosso dalla sete di conoscenza, è essenziale nella sua esperienza contingente, volendo essere si avvicina il più possibile all’essere. Il fenomenologo guarda alla letteratura perché in essa la soggettività, riferendosi al contingente, si sofferma sull’esistenza di valori universalmente condivisibili. La ricerca fenomenologica pone attenzione alla verità del vissuto, al protendere della soggettività verso le cose e di queste verso la soggettività ai fini dell’acquisizione di una sempre maggiore coscienza critica del soggetto pensante come risposta alla propria intenzionalità. Il fenomenologo va oltre il determinismo scientifico che riduce la psicologia a comportamentismo, la psicanalisi a causalismo biologico, la sociologia a funzionalismo; ritiene inoltre impossibile che il pensiero astratto possa oggettivarsi. Egli vuole praticare l’ex-pe-rire come cammino verso la verità dell’esistenza umana guardandosi però sempre dal rischio di cadere nello scetticismo, nell’irrazionalismo e nel dogmatismo.
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Perciò sottrae se stesso alla “terribile consunzione della volgarità ordinaria” (F. P. Botti, Il secondo Svevo, Liguori, Napoli, 1988, p. 181) che lo condurrebbero all’accettazione di idiosincrasie preconcette.
Per il fenomenologo la storicità non è deterministica in quanto ne siamo partecipi poiché abbiamo la consapevolezza dell’importanza che il passato può avere su di noi e di cui possiamo, a volte, anche fare a meno. La ricerca fenomenologica ci fa comprendere che gli uomini fanno esperienza sia della storicità sia dell’universalità delle verità che li riguardano in quanto soggetti concreti e non individui idealizzati. La storia ci dimostra che i cambiamenti di rotta sono possibili; Socrate e Sant’Agostino aprono nuove vie rispetto a quelle del passato, l’Illuminismo rappresenta una rottura sia rispetto al pensiero medievale che a quello rinascimentale.
Nel 1938 il governo italiano emana i Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista: le persone di razza ebraica non possono insegnare nelle scuole statali e parastatali. All’approvazione di questo decreto contribuiscono vari giuristi, indirettamente anche il mondo cattolico sedotto da uno dei conformismi più aberranti. Ma tutto questo non esclude la possibilità di un ricominciamento grazie allo statuto ontologico della soggettività. Infatti l’atteggiamento razzista della società fascista viene abbandonato con l’adesione assiomatica ai principi della Costituzione del 1948. La cieca obbedienza a norme e convenzioni accettate acriticamente si pone in contrasto con l’affermazione di valori universalmente condivisibili. Per esempio la Chiesa cattolica ha creato i tribunali dell’Inquisizione, quella luterana, calvinista e anglicana ha commesso genocidi contro coloro che avevano una diversa confessione religiosa. Durante l’Illuminismo, che ha valorizzato i diritti universali dell’uomo, i cattolici della Spagna e del Portogallo, i protestanti della Danimarca, della Germania, della Svezia, gli anglicani, i puritani delle colonie americane, i seguaci della Rivoluzione francese si sono resi responsabili della tratta di dodici milioni di schiavi dalle coste africane alle Americhe. Ciò vuol dire che il male ha vinto sul bene, l’originaria verità del valore della vita e della libertà è stata offuscata da cause contingenti attraverso cui la Chiesa ha giustificato azioni disumane smarrendo così il significato del messaggio evangelico.
Della necessità di far coesistere cristianesimo e diritti umani si è fatto interprete Giovanni Paolo II; infatti nel 2005, in Francia, in occasione del centenario dell’approvazione della legge che sancisce la laicità dello Stato, ha ribadito che
il principio di laicità appartiene alla dottrina sociale della Chiesa [perché] non è altro che il rispetto di tutte le fedi da parte dello Stato che assicura il libero esercizio delle attività culturali, spirituali, cultuali, caritative delle diverse comunità.
(Enzo Bianchi, “Per un’etica condivisa”, Einaudi, Torino 2009)
I pregiudizi ideologici e religiosi hanno sempre offuscato la coscienza critica che permane comunque in potenza e può portare perciò a verità universalmente esperibili. Se Aristotele giustifica come fatto di natura, quindi immodificabile, la schiavitù, nel corso dei secoli si è progressivamente affermata la consapevolezza di doverla condannare: Montesquieu, Rousseau, Beccaria hanno difeso il diritto di ogni uomo al rispetto della propria dignità. Il sonno della ragione genera mostri, ovvero una visione distorta di come stanno veramente le cose. In questo modo può accadere che le consuetudini limitino la libertà e la dignità delle persone, ma possono anche essere rimosse come dimostra il caso emblematico del banditismo diffuso nelle zone interne della Sardegna fino alla fine del secolo scorso.
Nella fenomenologia la ricerca della verità del mondo vissuto ci libera dal condizionamento a insensate modalità di esistenza; percepiamo la verità delle cose sottratte così alla sterile quotidianità vivendole con l’ardore del sentimento. Il filosofare fenomenologico è occupazione teoretica e, allo stesso tempo, preoccupazione etica che porta l’individuo a un grado di tensione intellettuale tale che, mentre l’esistenza quotidiana è sonno, lo sforzo del filosofo è risveglio (Georges Bataille, L’al di là del serio e altri saggi, Guida, Napoli 2000, p.37). In altre parole l’esperienza fenomenologica è “lotta per il senso di una autentica umanità” (Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 2002, p.44).
Conclusioni
A mio avviso parlare di fenomenologia vuol dire innanzitutto parlare di questioni di forma. In effetti non si può parlare di eternità dell’Essere poiché in questo modo esso non includerebbe l’uomo. Inoltre, secondo me, l’azione dell’uomo non deve essere classificata in base ai concetti di spazio e di tempo, perché così facendo si perderebbe traccia del vissuto e non si rinnoverebbero né l’interiorità del soggetto, né il significato dell’azione stessa e tutto si ridurrebbe all’astrazione; quindi venendo l’uomo incontro alla realtà è come se la realtà venisse incontro a lui. In altre parole l’azione dell’uomo deve essere priva di contesto di riferimento anche se ciò può sembrare paradossale. Questo perché il presente spinge verso il passato che tende a sua volta a rinnovarsi seppur in una forma diversa da quella precedente: in tal caso viviamo nell’illusione che il pensiero coincide momentaneamente con l’Essere ovvero con il Tutto.
Per risolvere questo problema la ricerca fenomenologica deve essere non solo ricerca del sé, ma anche ricerca dell’altro. Per fare ciò bisogna però rifuggire dai pregiudizi dell’opinione che omologa tutto ad un arido conformismo e porre l’attenzione alla capacità dell’uomo di sentire se stesso perché è come sentire gli altri. Verrebbe a questo punto da chiedersi se l’intenzionalità ovvero le esigenze di uno possano coincidere con quelle degli altri; se si considera un substrato comune a tutti gli uomini ovvero un modello archetipico originario allora ciò è possibile. In tal senso la spazialità si perde nella temporalità, passato e presente coesistono nell’attesa onirica dell’avvenire.
La verità comunicata si scinde in molteplici e diverse forme a seconda dell’autentica natura dell’intenzionalità del soggetto che le recepisce, ma spesso dette forme sono in contrasto tra loro.
Allora viene da chiedersi: se il soggetto pensante rappresenta un ente a sé stante come è possibile che, nell’atto del conoscere, viva esclusivamente di sensazioni che sono sempre fugaci e ingannevoli? Esiste forse una forma delle sensazioni, nel senso che esse rimandano sempre ad un preciso significato?
A mio avviso l’Essere lo esclude perché, essendo anche la realtà in cui viviamo, non si può quindi dedurre che le sensazioni sono fisse, perché in questo modo si ammetterebbe che esse sono necessarie sempre. Allora mi viene in mente di chiamare in causa la ragione; essa sussiste sempre oppure è soltanto la conseguenza di uno storico determinismo? La nostra scelta fa la differenza poiché, avendo valore immanente e, superando lo status quo, anche trascendente, ha come effetto quello di rimandarci verso il nostro vissuto, cioè ci obbliga a fare i conti con noi stessi affinché possiamo a capire, un po’ per volta, la responsabilità morale di quanto intendiamo trasmettere agli altri. In tal senso non ci perdiamo in astratte congetture etichettate o etichettabili che ci condurranno necessariamente a una verità di comodo, fatta per autostimarci o, addirittura, per autocommiserarci di fronte alla prospettiva della morte. Inoltre la nostra scelta evita di farci progressivamente allontanare dalla realtà col rischio di renderci schiavi dei soliti pregiudizi i quali spesso ci spingono a commettere errori ed ingiustizie, forse un modo questo di scaricare sugli altri il nostro disappunto per l’incomprensione che abbiamo di noi stessi.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Fenomenologia: l’esperienza della realtà nel pensiero di filosofi e scrittori
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