La più perfetta descrizione di Jorge Luis Borges la si trova in un suo personaggio, una delle creature di carta cui ha dato vita la sua penna visionaria: l’anziano bibliotecario narratore della Biblioteca di Babele (1941), l’illuminante racconto contenuto nella labirintica raccolta Finzioni. Quel solo racconto vale più di ogni approfondita o ricercata biografia perché vi troviamo l’essenza di Borges, che non poteva stare solo nella realtà concreta delle cose, benché lui l’abbia descritta meglio di chiunque altro servendosi appunto del suo opposto, la finzione.
Ne La Biblioteca di Babele ci viene presentato un mondo onirico che appare distante dal Reale, eppure è la più perfetta allegoria del reale stesso. Gli scaffali della biblioteca immaginata da Borges contengono tutti i libri possibili, ma la maggior parte delle parole che vi si leggono sono incomprensibili.
Jorge Luis Borges e la Biblioteca di Babele
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L’intero universo è racchiuso nelle stanze esagonali della biblioteca di Borges che si fa così drammatica metafora del desiderio di conoscenza umano che non potrà mai essere del tutto soddisfatto. All’interno della biblioteca è contenuto un unico libro che riporta la verità, la risposta alla domanda sull’esistenza di Dio, le biografie di tutti gli uomini, la fine e il principio; ma quel volume è introvabile perché nella biblioteca regna il caos. Dove tutte le combinazioni di lettere sono possibili a fare da padrone è l’assenza di significato.
Intrappolato in un labirinto di libri al narratore sarà dunque impossibile distinguere il vero dal falso, ne deduce che la perfetta conoscenza della realtà è un’illusione.
Jorge Luis Borges, la vita e la scrittura
Per descrivere la scrittura immaginifica di Jorge Luis Borges fu coniato un termine nuovo: realismo magico. Metafisica, immortalità, labirinti, specchi, visioni dell’infinito sono le tematiche ricorrenti nei suoi libri che appaiono come una continua indagine letteraria dell’esistenza. Chi era Jorge Luis Borges? Era il bibliotecario cieco della Biblioteca di Babele, un uomo dalle capacità quasi divinatorie in cui il talento nella scrittura si mescolava a una rara forma di spiritualità. Cieco come Omero, a soli cinquantacinque anni perse la vista ma non rinunciò mai alla scrittura e divenne il poeta visionario e profetico della crisi del Novecento.
Era nato il 24 agosto 1899 a Buenos Aires, città caotica e infernale che sarebbe diventata lo scenario perfetto del suo primo libro, la raccolta poetica Fervore di Buenos Aires (1923). In quel libro era già contenuto tutto il futuro del Borges scrittore, narratore e critico: c’era l’ombra e la luce, la ricerca d’infinito, l’origine Argentina, il caos e il silenzio.
Era il rampollo di una famiglia colta e agiata che gli garantì sin dalla prima infanzia studi privati grazie a un’istitutrice inglese. Il giovane Borges leggeva tantissimo e si rivelò subito portato per la creazione letteraria.
Nel 1935 diede alle stampe la sua prima raccolta di racconti, Storia universale dell’infamia, che porterà la sua prosa all’attenzione internazionale. Il libro raccoglieva storie di finzione ispirate alle vite di criminali realmente esistiti; Borges in seguito lo definì un gioco, mentre per la critica quei racconti erano già il primo esempio di realismo magico.
Negli anni quaranta del Novecento Borges svolgeva la professione di assistente bibliotecario, lavoro che interruppe quando salì al potere in Argentina Juan Domingo Peron verso il quale il giovane scrittore nutriva un disprezzo mai celato.
Jorge Luis Borges e il Nobel mancato
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L’interesse per la politica di Borges fu sempre manifesto e lo ostacolò spesso nel corso della sua esistenza; secondo indiscrezioni recentemente trapelate le sue simpatie per Pinochet furono tra le ragioni per cui gli fu sempre negato il Nobel dall’Accademia di Svezia. Anche Maria Kodama, la vedova dello scrittore recentemente scomparsa, confermò che il Nobel fu negato a Borges per ragioni politiche e dichiarò che le visite al generale Pinochet erano legate a ragioni di stato.
Il momento più proficuo per la sua carriera di scrittore fu il 1938, quando fu costretto a letto da una setticemia. Dedicò questo periodo di stasi forzata alla scrittura, componendo i suoi capolavori: Finzioni (1944) e L’Aleph (1949), libri che avrebbero decretato la sua fama internazionale, che perdura tuttora.
Negli anni Cinquanta la cecità che lo perseguitava, come una tara familiare trasmessa dal nonno al padre, aggredì Borges facendolo piombare nel buio. A nulla valsero le visite e le cure dei luminari svizzeri; lo scrittore dovette rassegnarsi all’assedio dell’oscurità. Nel libro Elogio dell’ombra affermava che “il buio è dolce, perché assomiglia all’eternità”.
Per uno strano scherzo del destino proprio in quegli anni venne nominato direttore della Biblioteca nazionale argentina. Senza volerlo si era tramutato nel narratore della Biblioteca di Babele, circondato da libri illeggibili.
Commentò così la scelta:
È una sublime ironia divina ad avermi dotato di ottocentomila libri e, al tempo stesso, delle tenebre.
Lasciò l’incarico nel 1973 quando Peron tornò al potere in Argentina. Si definiva “antiperonista, anticomunista e antifascista” e questo suo esasperato individualismo fu il viatico del suo genio letterario, ma l’ostacolo alla sua definitiva consacrazione nel mondo sociale delle lettere e delle arti. Dissero che era troppo “esclusivo e artificiale” per vincere il Nobel.
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Jorge Luis Borges si spense nel giugno del 1986 a Ginevra, in Svizzera, assistito dall’ultima compagna della sua vita, Maria Kodama. Negli ultimi anni della sua vita fu insignito di numerosi premi, ormai universalmente riconosciuto come uno dei massimi esponenti della letteratura mondiale. Era considerato un classico già in vita e di certo il tempo gliene darà ragione.
C’è un racconto ne Il libro di sabbia, uno dei suoi ultimi capolavori, in cui Borges immagina un confronto tra il sé stesso anziano e il sé ventenne sulla riva di uno specchio d’acqua. Il giovane Borges si trova sulla riva del fiume Charles, a Cambridge, l’anziano sulle sponde del lago di Ginevra. Il racconto non a caso si intitola L’altro e affronta il tema del doppio: i due Borges dialogando si scoprono “troppo diversi e troppo simili”, ciascuno è una caricatura dell’altro sé stesso. Nel confronto speculare viene data sostanza alla trasformazione interiore operata dagli anni; un cambiamento che va al di là di quello fisico istituendo un ineludibile varco generazionale in grado di separare il presente dal passato, la gioventù dalla vecchiaia. Il vecchio Borges ride delle illusioni del giovane Borges che ancora crede “nell’invenzione e nella scoperta di nuove metafore”.
Nella discussione tra i due troviamo il testamento di vita di Jorge Luis Borges, che si discosta decisamente dal compiaciuto elogio letterario:
Non so quanti libri scriverai, ma so che sono troppi. Scriverai poesie che ti daranno un piacere non condiviso, e racconti di carattere fantastico. Insegnerai anche, come tuo padre e come tanti altri del nostro sangue.
Fui felice che non mi chiedesse niente del fallimento o del successo dei libri.
In particolare una frase ci conduce nella dimensione metafisica, molto cara a Borges, che sembra una metafora dell’aldilà. La pronuncia il Borges anziano rivolto al Borges giovane:
In fin dei conti, al risveglio, non c’è nessuno che non incontri se stesso.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Jorge Luis Borges: vita e opere del bibliotecario cieco
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