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Fame di Knut Hamsun

Con questo romanzo in cui la fame, i sentimenti, il fato, la bramosia umana, ma anche l’onestà, la generosità sono amalgamati in un alchemico turibolo, Knut Hamsun racconta gli scrittori o forse solo l’uomo, forse solo se stesso, disperatamente, ma senza inutili orpelli, oltrepassando l’autocommiserazione, con temerarietà e amore incorrotto.

Luca Caddeo
Luca Caddeo Pubblicato il 15-10-2013

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Fame

Fame

  • Autore: Knut Hamsun
  • Categoria: Narrativa Straniera
  • Casa editrice: Adelphi

Ascoltando la parola “fame” non pensiamo a Knut Hamsun. Eppure, nell’omonima opera del 1890, il controverso scrittore norvegese illustra come pochi questa condizione fisica e non solo fisica.

Il racconto è ambientato in un mondo fatto di carrozze e cocchieri, locande caserecce, lanterne a olio, coprifuoco notturno, asprezza frugale, affettata educazione, sgualciti gilè sotto la giacca e lunghe vesti che celano corpetti. Non si tratta di un romanzo moralistico che imputa la fame al sistema, a chi ha di più e non divide, ai ricchi che rubano, ai borghesi, agli ingordi, ai padroni.

Sult è la disincantata fenomenologia di una fame che è qua, degli effetti che ingenera sullo spirito, degli spasmi che tracimano nella nausea, di rigurgiti davvero svuotanti. E’ la realistica descrizione dei lisergici vaneggiamenti ai quali la fame introduce, della allucinata mentalità che allestisce, delle emozioni autodistruttive che alimenta. La storia, almeno parzialmente autobiografica, trasuda di vita informandoci sulle difficoltà, invero ancora decisamente attuali, che uno scrittore deve affrontare se intende consacrarsi totalmente alle parole nonostante “i tanti rifiuti, le promesse dette a mezza voce, i tanti no, le speranze illusorie”, i tentativi vani che fiaccano il coraggio.

Hamsun narra del rapporto tra scrittore e pagina bianca, della assidua ricerca dell’ispirazione, delle parole che non arrivano al foglio, dei fogli stracciati, dei ripensamenti stilistici, della paura di vergare illeggibili banalità. Il giovane protagonista di Sult vagola per Christiania, l’attuale Oslo, senza un quattrino; cerca lavoro ma non ne trova, scrive per passione, ma anche per mangiare; e mangia, pochissimo, per continuare a scrivere, senza smarrire la dignità salvaguardando, anzi, intatto l’orgoglio che spesso traligna nella più irrazionale, autolesionistica ostinazione. Il franco, a tratti blasfemo, dialogo dell’artista con Dio comunica a chi legge una sensazione atavica in cui il trascendente appare vivo nel paradosso del dolore più profondo, anche se incomprensibilmente sordo, lontano, nascosto.

Tra abissali idiosincrasie, bizzarrie di ogni specie e interiori miasmi, gradualmente fiorisce tra le parole l’amore per una giovane ragazza alla quale viene affibbiato l’esotico nome di Ylajali. La durezza sfocia, così, impercettibilmente in una sorta di tenerezza che non scade mai in un mieloso sentimentalismo né, all’opposto, in un’animalesca brama di copulazione. Si tratta piuttosto di un amore totale che solo pochi reietti sanno coltivare, un amore del quale non si vuole essere all’altezza, che spesso vira nel ricordo per restare intatto.

Con questo romanzo in cui la fame, i sentimenti, il fato, la bramosia umana, ma anche l’onestà, la generosità sono amalgamati in un alchemico turibolo, Knut Hamsun racconta gli scrittori o forse solo l’uomo, forse solo se stesso, disperatamente, ma senza inutili orpelli, oltrepassando l’autocommiserazione, con temerarietà e amore incorrotto.

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