

Meriggio è una celebre poesia di Gabriele D’Annunzio appartenente alla raccolta Alcyone.
Secondo la maggior parte dei critici essa rappresenta la realizzazione più efficace del panismo, che qui si palesa assoluto e puro persino più di quanto non avvenga ne La pioggia nel pineto e La sera fiesolana, considerati i capolavori lirici dell’artista pescarese. La natura è protagonista indiscussa del componimento e l’autore, da principio semplice spettatore delle sue meraviglie, giunge man mano a fondersi con essa fino a divenirne un elemento a tutti gli effetti.
La totale trasfigurazione nell’ambiente circostante lo conduce a una sensazione di estasi profonda che lega umano e naturale in una fusione divina che non distingue più l’uno dall’altro. La magnifica descrizione del paesaggio marino toscano, colto nello splendore di un’assolata giornata estiva, contribuisce a rendere Meriggio una delle poesie più suggestive dell’intera produzione letteraria dannunziana e del Decadentismo.
“Meriggio”: testo della poesia
A mezzo il giorno
sul Mare etrusco
pallido verdicante
come il dissepolto
bronzo dagli ipogei, grava
la bonaccia. Non bava
di vento intorno
alita. Non trema canna
su la solitaria
spiaggia aspra di rusco,
di ginepri arsi. Non suona
voce, se ascolto.
Riga di vele in panna
verso Livorno
biancica. Pel chiaro
silenzio il Capo Corvo
l’isola del Faro
scorgo; e più lontane,
forme d’aria nell’aria,
l’isole del tuo sdegno,
o padre Dante,
la Capraia e la Gorgona.
Marmorea corona
di minaccevoli punte,
le grandi Alpi Apuane
regnano il regno amaro,
dal loro orgoglio assunte.La foce è come salso
stagno. Del marin colore,
per mezzo alle capanne,
per entro alle reti
che pendono dalla croce
degli staggi, si tace.
Come il bronzo sepolcrale
pallida verdica in pace
quella che sorridea.
Quasi letèa,
obliviosa, eguale,
segno non mostra
di corrente, non ruga
d’aura. La fuga
delle due rive
si chiude come in un cerchio
di canne, che circonscrive
l’oblìo silente; e le canne
non han susurri. Più foschi
i boschi di San Rossore
fan di sé cupa chiostra;
ma i più lontani,
verso il Gombo, verso il Serchio,
son quasi azzurri.
Dormono i Monti Pisani
coperti da inerti
cumuli di vapore.Bonaccia, calura,
per ovunque silenzio.
L’Estate si matura
sul mio capo come un pomo
che promesso mi sia,
che cogliere io debba
con la mia mano,
che suggere io debba
con le mie labbra solo.
Perduta è ogni traccia
dell’uomo. Voce non suona,
se ascolto. Ogni duolo
umano m’abbandona.
Non ho più nome.
E sento che il mio volto
s’indora dell’oro
meridiano,
e che la mia bionda
barba riluce
come la paglia marina;
sento che il lido rigato
con sì delicato
lavoro dall’onda
e dal vento è come
il mio palato, è come
il cavo della mia mano
ove il tatto s’affina.E la mia forza supina
si stampa nell’arena,
diffondesi nel mare;
e il fiume è la mia vena,
il monte è la mia fronte,
la selva è la mia pube,
la nube è il mio sudore.
E io sono nel fiore
della stiancia, nella scaglia
della pina, nella bacca
del ginepro; io son nel fuco,
nella paglia marina,
in ogni cosa esigua,
in ogni cosa immane,
nella sabbia contigua,
nelle vette lontane.
Ardo, riluco.
E non ho più nome.
E l’alpi e l’isole e i golfi
e i capi e i fari e i boschi
e le foci ch’io nomai
non han più l’usato nome
che suona in labbra umane.
Non ho più nome né sorte
tra gli uomini; ma il mio nome
è Meriggio. In tutto io vivo
tacito come la Morte.E la mia vita è divina.
“Meriggio”: parafrasi del componimento


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Intorno a mezzogiorno sul Mar Tirreno, di un colore verde smorto, come quello degli oggetti in bronzo disseppelliti dalle tombe etrusche, pesa la bonaccia. Non si sente il minimo soffio di vento nell’aria. Non dà nessun segno di movimento la canna solitaria sulla spiaggia, (ricoperta) di piante selvatiche e di ginepri arsi dal sole. Se mi impegno ad ascoltare non riesco a sentire alcun suono. All’orizzonte la fila di barche a vela ferma verso Livorno biancheggia (a causa della lontananza e della foschia). Nel limpido silenzio vedo le isole del Faro, di fronte alla costa Toscana e ancor più lontano, appaiono evanescenti nell’aria, isole da te tanto odiate, o Dante, la tua Capraia e la Gorgogna (Dante desiderava che vendicassero la morte del Conte Ugolino)
Le Alpi Apuane, da cui si ricava il marmo, si innalzano quasi spinte dal loro orgoglio, irte di cime verso il cielo e dominano sul mare, amaro regno delle onde.
Stagnante come una palude, (l’Arno) che ha lo stesso colore del mare, alla foce è di un torpido silenzio e si allarga fra le capanne dei pescatori, vicino alle quali dalle pertiche a forma di croce pendono delle reti. (La foce) che prima del meriggio, con l’acqua increspata dal vento, sembrava muoversi come fa un volto che sorride, ora ha un’acqua pesante e immobile, di un colore verde spento. Ed è come l’acqua del Lete (fiume dell’oltretomba) apportatore di oblio. Le due vie del fiume che si allontanano verso l’interno sembrano confondersi: soltanto in lontananza si vede un canneto che acuisce l’impressione di una palude silenziosa. Più oltre, la pineta di San Rossore, compatta e scura: in fondo, verso il litorale del Gombo e la foce del Serchio, i boschi sfumano nell’azzurro. Silenziosi sono i monti Pisani ricoperti di nebbia.
Ormai avverto che l’estate che grava attorno a me (sul mio capo) è matura come un frutto che mi è stato promesso, colto con la mia mano e che succhio con le mie labbra. Ogni traccia d’uomo è perduta. Se provo ad ascoltare, non c’è voce. Ogni dolore umano mi abbandona. Non ho più nome, e che la mia barba brilla come fa la paglia marina; sento che la spiaggia rigata dal lavoro leggero dell’onda e dal vento è come il mio palato, è come il cavo della mia mano dove il tatto si affina.
E la mia forza si dispiega nell’arena, si diffonde nel mare, il fiume è la mia vena, il monte la mia fronte, la selva il mio pube, le nubi il mio sudore. E io sono nel fiore della stiancia, nella scaglia della pigna, nella bacca del ginepro: io sono nel fuco, nella paglia marina, in ogni cosa piccola e in ogni cosa grande, nella sabbia contigua, nelle vette lontane. Ardo e risplendo. Non ho più nome. E le Alpi, le isole, i golfi, i capi, i fari, i boschi, le foci non hanno più il loro nome così come viene pronunciato dalle labbra umane. Non ho più nome né destino tra gli uomini; ma il mio nome è pomeriggio. In tutto io vivo, silenzioso come la morte.
E la mia vita è divina.
“Meriggio”: metrica e figure retoriche
In Meriggio lo schema metrico è funzionale all’idea di staticità e di quiete del paesaggio che l’autore intende comunicare al lettore. La poesia si struttura in quattro strofe di ventisette versi ciascuna più un verso finale isolato. Rime e assonanze sono liberamente distribuite.
Tra le numerose figure retoriche spiccano:
- le similitudini (ad esempio il mare “pallido verdicante come il dissepolto bronzo dagli ipogei” e la barba “come paglia marina”);
- le metafore (ad esempio "sasso stagno" per indicare l’Arno);
- le personificazioni (ad esempio le montagne "minaccevoli" e i Monti Pisani che sembrano dormire);
- frequenti sono anche le ripetizioni e le accumulazioni (ad esempio l’elenco degli elementi della natura).
Analisi della poesia: il panismo, l’estate e la luce
Meriggio si può facilmente dividere in due parti:
- la prima, dal verso 1 a 54, consiste in una dettagliata descrizione del paesaggio toscano in un caldo e silenzioso pomeriggio estivo;
- mentre nella seconda, dal verso 55 a 109, si compie il reciproco compenetrarsi fra l’uomo e la natura in una totale e totalizzante fusione panica che, proprio in questi versi, secondo i critici, raggiunge l’apice dell’intera produzione artistica dannunziana.
Dall’inizio alla fine il componimento è dominato dalla luce e dal calore, testimonianza del trionfo dell’Estate, la stagione che più di ogni altra affascina e soggioga i sensi del poeta, desideroso di goderne appieno sia nel corpo che nell’anima. Il sole, ovunque fortemente presente, appare come il principio vitale che investe ogni cosa, così come il fuoco che da esso emana, lungi dall’essere soltanto fisico, assume connotati spirituali: l’unione inscindibile dell’io con il tutto si rende possibile anche grazie alla sua energia e alla forza prorompente e vivificante che scaturisce dal suo ardere perenne.
Il meriggio rappresenta il momento più significativo della giornata, certamente il più atteso dal poeta, poiché il tempo che sembra come diventare sospeso gli consente di sperimentare l’agognata sensazione di "trasumanare", ovvero di ampliare le proprie capacità sensitive, che in un crescendo di sentori, percezioni e felici intuizioni si fanno capaci di catturare e accogliere il misterioso ritmo dell’esistenza dell’universo in una scambievole e suprema compenetrazione.
Mai come in questa ora di assorta fissità D’Annunzio sente la propria appartenenza ad essa, alle sue leggi oscure, alla sua ineguagliabile bellezza, all’inspiegabile enigmaticità che intrinsecamente le appartiene.
Un sublime turbamento lo assale e gli fa comprendere come non mai quanto egli viva anche nella scaglia della pigna, nella bacca del ginepro, nei granelli di sabbia, in ogni piccolo e recondito angolo del creato. Quella di D’Annunzio è una vera e propria metamorfosi, che ne cancella l’individualità umana e ogni cognizione dei propri limiti per renderlo "divino".
Tale comunione, tuttavia, non ha nulla a che vedere con la religiosità e il misticismo, ma si risolve in una esaltazione naturalistica, in una celebrazione del corpo da intendere in senso strettamente pagano.
Dal punto di vista linguistico e stilistico, infine, Meriggio non viene neanche minimamente sfiorata da certi appesantimenti mitologici e dall’esagerato egocentrismo che riguardano invece altre Laudi, poiché le citazioni colte e gli accenti individualistici, pur presenti, sono ben calibrati, misurati e mai prevaricanti. Nell’ambito di questa pulizia formale, la tematica del panismo, tanto cara a D’Annunzio e a gran parte della letteratura decadente, trova la via migliore per esprimersi ed imporsi in tutta la sua straordinaria complessità.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Meriggio”, la poesia di Gabriele D’Annunzio sulla trasfigurazione dell’io nella natura
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