Leggendo il libro Fine del carabiniere a cavallo, curato da Paolo Squillacioti, si incontra uno scritto in cui Leonardo Sciascia parla del suo rapporto con Jorge Luis Borges.
Prima di vederlo la sola volta in un negozio di pellicceria a Roma, aveva scritto un articolo dedicato alle “Ficciones” nell’opera dello scrittore argentino La biblioteca di Babele, uscita nel 1955 nei collana einaudiana “I Gettoni” di Elio Vittorini.
La recensione venne pubblicata dalla Gazzetta di Parma che aveva all’epoca una pagina letteraria settimanale denominata “Raccoglitore”.
Sciascia parlava di una fusione di elementi che connotavano la scrittura di Jorge Luis Borges:
Pensate ai racconti del mistero di Edgar Poe, a certi racconti fantastici di Max Beerbohm, a quelli surreali di Savinio; e al loico arabesco di Ortega, e ancora Savinio per quel gusto della citazione, vera o apocrifa...
Aveva evidenziato l’ossessione di Borges per la storia, ma poi correggerà il suo errore perché avrebbe dovuto usare la parola “tempo” anziché “storia”:
Per lui la storia non è che l’assurdo corollario di quella e più vasta e spaventosa realtà che è il tempo. E arrivava al punto da desiderare che si sperda o si consumi, il tempo, sul suo nome, sul suo ricordo, sulle sue pagine.
Desiderava essere dimenticato Borges; agiva in lui l’idea dell’abolizione della memoria e del tempo. E nella sua guerra al tempo era armato di teologia. E Leonardo Sciascia lo pensava come:
Il più grande teologo del nostro tempo. Un teologo ateo vale a dire.
Non sono assenti nelle opere dello scrittore di Racalmuto i riferimenti borgesiani, tra cui Il contesto e Todo modo, Il teatro della memoria e L’affaire Moro.
Soprattutto in Cronachette, apparsa nella collana La memoria di Sellerio (Palermo, 1985), due racconti, Don Mariano Crescimanno e L’inesistente Borges, si pongono in sintonia con l’universo borgesiano per alcuni specifici aspetti a partire dal motivo del “doppio” che integra personaggi di segno opposto: si riferisce Sciascia a una sovrapposizione, a una composizione nelle facce di una stessa medaglia di personaggi del tutto diversi per ritrovarsi l’uno identico all’altro.
Don Mariano Crescimanno di Leonardo Sciascia: analisi
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Don Mariano Crescimanno è introdotto dal racconto di Borges I teologi, letto da Sciascia molti anni fa sulla rivista Inventario, in cui Aureliano e Giovanni di Pannonia, l’ortodosso e l’eretico entrambi fanatici, nel regno dei cieli sanno di essere una sola persona. Entrambi erano rimasti colpiti dalla stessa morte: condannato al rogo Giovanni di Pannonia e bruciato da un fulmine Aureliano: l’opposizione viene così annullata e avviene la loro riconciliazione in modo beffardo a opera di una confusa mente divina. Sicché, dice Sciascia nell’incipit del racconto:
L’ortodosso e l’eretico, l’aborritore e l’aborrito erano una sola persona.
Nella Sicilia borbonica dell’ultimo ventennio del Settecento, l’identità speculare è da Sciascia trasferita nel marchese di Villabianca, l’inquisitore, e nel benedettino don Mariano, l’eretico, la cui permanenza nelle prigioni si trasforma in supplizio. Il primo è un dogmatico: la sua devozione al diritto divino del re, alla chiesa, alla legittimità di ogni istituzione e di ogni privilegio è incrollabile. Annota nel diario gli episodi che lo riguardano e vede ovunque l’agire di Dio anche se perde un occhio. Si sente sicuro e sereno quando assiste a una esecuzione per eresia.
Abolita l’Inquisizione il 27 marzo del 1782, il marchese avrebbe salvato e custodito una reliquia donatagli da don Gaetano Alessi, consultore e qualificatore del Tribunale dell’inquisizione: il breviario del condannato don Mariano Crescimanno, dedito a puzzolente carnale eresia e a Modica capo di una setta, intorno al 1735, il cui centro era il monastero delle benedettine. L’eresia: quella illuministica del dissenso, spiega il Nostro scrittore, considerata già pazza. Condannato a carcere perpetuo forse perché aveva rifiutato di abiurare o forse perché la sua abiura non fu creduta sincera, nei primi cinque anni di prigione era già impazzito:
Niente di più probabile lo fosse già al momento dell’ “atto di fede”.
La descrizione a fosche tinte si fa attuale quando Sciascia riferisce la sorte di Ezra Pound:
Ingabbiato nel campo di concentramento pisano e poi trasferito in manicomio.
Spacciato dunque per pazzo, don Mariano muore solo nella sua buia cella senza un’assistenza ecclesiastica e il suo corpo senza sepoltura ecclesiastica viene interrato nel giardino del palazzo. Non esiste, vuole dire Sciascia, alcuna differenza fra personaggi opposti:
Nell’oltremondo il virtuoso e savio marchese di Villabianca si riconobbe nel peccatore e folle don Mariano Crescimanno.
L’inesistente Borges: analisi del racconto di Sciascia
L’inesistente Borges rende omaggio allo scrittore argentino. Innanzitutto Sciascia intrattiene il lettore sull’inesistenza di Borges: un caso sensazionale pubblicizzato da una rivista argentina secondo la quale Borges non esiste. Confuta la notizia e avanza un’ipotesi:
E a qualcuno può anche venire il sospetto che l’invenzione della inesistenza di Borges possa avere avuto come autore lo stesso Borges: una specie di scorciatoia da lui escogitata per raggiungere in anticipo l’inesistenza.
Un modo per soddisfare le sue istanze all’oblio, al volere essere dimenticato.
Avvince il brano in cui il nostro scrittore si sofferma sul nesso libri-universo, quasi delineando una teologia della letteratura che poggia sul piacere della rilettura come scoperta di nuove connessioni:
Qualche anno fa ho definito Borges un teologo ateo. È da aggiungere che è un teologo che ha fatto confluire la teologia nell’estetica, che nel problema estetico ha assorbito e consumato il problema teologico, che ha fatto diventare il “discorso su Dio” un “discorso sulla letteratura”. Non Dio ha creato il mondo, ma sono i libri che lo creano. E la creazione è in atto: in magma, in caos. Tutti i libri vanno verso “il” libro, l’unico, l’assoluto. Intanto, i libri sono come dei ribollenti “accidenti” rispetto alla “sostanza” in cui confluiranno e che sarà il libro (“substantia sive deus”: spinozianamente); e finché non avverrà la confluenza, la fusione, ciascun libro sarà suscettibile di variazioni, di mutamenti – e cioè di apparire diverso a ogni epoca, a ogni generazione di lettori, a ogni singolo lettore e a ogni rilettura da parte di uno stesso lettore. Un libro non è che la somma dei punti di vista di un libro, delle interpretazioni. La somma dei libri, comprensiva di quei punti di vista, di quelle interpretazioni, sarà il libro.
Dinanzi allo sfaldamento della realtà, quel che resta è il percorso conoscitivo della letteratura, capace di intravedere la verità.
“Borges a Racalmuto”, dunque. Sciascia ne rimane affascinato. Lo legge, lo sente vicino e a Palermo lo intervista, accomunato a lui, fra l’altro, da un argomento di grande attualità, religioso o meno: l’avversione al fanatismo dell’inquisizione e della tortura in nome della ragione e della tolleranza. Lo ripensa sostenitore dei Dialoghi di Platone, spoglie dai pregiudizi e dalle apparenze, accolgono la diversità delle opinioni con il rifiuto del pensiero unico in un conversare visto come metodo, come insoddisfazione di ogni sistema incompiuto.
In conclusione, Borges in cui Sciascia si riconosce come a volere rivendicare una paternità: l’uomo del dubbio senza certezze, e neppure quella dell’incertezza.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Sciascia sulle orme di Borges: analisi e commento di due racconti
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