

L’isola amorosa
- Autore: Giuseppe Bonaviri
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Rizzoli
L’isola amorosa (Rizzoli, 1973) è il titolo del romanzo in cui Giuseppe Bonaviri svolge la narrazione come un seguito di avventure, ricerche, esplorazioni ed esperienze. Alcune battute dell’incipit ne evidenziano il leimotiv:
Troos mi diceva che l’essere, combinazione di materie l’una nell’altra facilmente trasmutabili, non è mai identico a se stesso. “Nulla” concludeva “di ciò che è stato, è”.
Il narrante, Haadàm, in sua compagnia, sale in cima al grattacielo di Hgven, città fantasma “rosa dallo zolfo e dal piombo”; dalla vertiginosa altezza scorge un intrico di strade, un groviglio di macchine e di miseri uomini, piccoli come formiche. Ecco un particolare significativo sul valore assegnato da Bonaviri alla metamorfosi:
Qualche ombra veniva da piante riarse, senza fronda, e un uomo negletto e smunto se ne stava con gli occhi fissi su un tronco per decifrarvi quanto con caratteri rozzi vi era scritto.
L’attenzione alla problematica ecologica si evidenzia nel contrasto fra l’abbondanza dei mezzi meccanici e il rimpicciolimento degli “inarsicciati uomini” (“Poveraglia, piccola gente”). Il degrado è ritrovato nel cuore della città con le sue rovine, in un cambiamento che ha corroso, stravolto, scomposto i significati autentici della quotidianità. Il penoso spettacolo è quello della caduta dell’uomo che rivela un’abissale e irrimediabile distanza dalla mitica età dell’oro.
Trovano sulla sommità del grattacielo un uomo di nome Gerim intento a calcolare gli effetti del tramonto sulla metropoli; poco dopo vengono raggiunti da un vecchio rimatore: “Sono il rimatore Ormazd di Samarcanda. Cerco mia figlia Abinzoar ed ho una lunga arsura”. A loro poi si avvicinano due ragazzi che dicono di essersi smarriti quassù.
Nasce dalla non accettazione dell’inferno cittadino e dal bisogno evitare una catastrofe imminente la fuga verso altri nuovi spazi, verso la favoleggiata terra felice dove i percorsi sono caratterizzati dalle illimitate opportunità della fantasia che zampillano dall’inconscio personale e da quello collettivo. Haadàm e i suoi compagni (Troos, Gerim, Zabul, Rhaman, Ormazd, Penbruck) partono l’11 luglio alla ricerca dell’isola, attraversando il deserto coi cammelli. Singolare il comportamento del rimatore, il quale crede all’esistenza di conoscenze che sfuggono alla visione di ciò che appare:
Il vecchio Ormazed cercava, in quella grama servetta, le vestigie della figlia sulle scorze e, aprendo le piante, nei nervi e alle basi in cerchi paralleli di venuzze.
Ed è Gerim a dare una spiegazione sul divenire della sostanza
“Noi siamo abituati alla forma” continuava Gerim “e non possiamo capire per quali ineguagliabili gerarchie ci perpetuiamo nell’invisibile”.
Lungo il tragitto scorgono presenze misteriose, ascoltano vibrazioni di suoni, sentono il peso delle fatiche al punto che Troos dubita di riuscire ad andare avanti. Ansiosamente si interrogano sull’incerto viaggio:
Ma dove vogliamo arrivare?; […] Come faremo ad andare avanti?; È la giusta strada per raggiungere il mare; […] La cosa ci impediva di camminare speditamente; […] Riusciremo ad andare avanti?
Giunti al mare Troos, guardando gli aironi sparsi, si convince della vicinanza della loro isola e ripartono a bordo d’una barca. Questa la fantastica visione di Tjmucah, “L’isola amorosa” in navigazione nel cuore del Mediterraneo, mentre subisce l’attrazione dell’ignoto e di altri corpi celesti:
L’isola con un’orbita intermedia andante tra i fissi atolli e l’almuncantàrat celeste scorreva, senza che subisse mutamenti in comparazione col mare, sfuggendo al suo stesso centro.
All’arrivo i pellegrini sono accolti da amici; per un sentiero discretamente ciottoloso si inoltrano nel territorio; in quel tratto la mistione perfetta di odori e sostanze è inscindibile. I profumi si diffondono circolarmente e Tymuach segue il “vaeviéni” del mare. Totale l’immersione nel paesaggio che vibra di vita: luci e ombre, suoni e colori, profumi e scintillii lo connotano. Dalla vegetazione affiora sia la percezione dell’ignoto che la bellezza della natura. Non tutto ciò che esiste viene percepito dalla limitatezza dei sensi:
Abu sottovoce si lamentava dell’assenza di rumori, ma Tros lo rinfrancava dicendogli che, essendo i nostri sensi rozzi, non potevano, al di là della luminosità delle cale visibili, percepire (per questo aveva raccolto acqua nel cavo delle mani) come una goccia in più aspetti si unisse ad altra goccia, e si scindesse in mille altre piccolissime in un gran numero di tremori solari.
C’è nell’isola la dimora che Troos aveva lasciato per la permanenza a Hgvem. Si trova in un grand’albero di pepe e un eucalipto che s’innalza da un povero suolo gessoso: da lì è possibile scorgere i mutamenti della natura. Ed ecco compiersi il compimento del prodigio:
In quel momento si vide una ragazza lasciare dall’ingiù all’in su le acque in una gran copia di segmenti violetti. Era Abinzoar. Il padre, mentre accostava una rosa lapidea ad una conchiglia, la vide.
“Padre Ormazd” disse.
Il vecchio, rattratto in sé, più gracile del solito, emanò un’ombra in cerchi paralleli. “Abinzoar” disse.
Nell’isola i Minii abitano su una rupe detta Kefa; è Anficrate, il loro accompagnatore, a dare notizie sulla vita degli abitanti:
Lo ragguagliò sui pastori che in quelle ore nei tornanti, e alcuni nei borri, traevano dal latte ricotta. Più su, le donne, dinanzi alle abitazioni d’argilla, con diligenza cuocevano ceci in sabbia rovente e il cuscus in acqua di erba cedrina.
Suonatori accoccolati nella sfera degli ulivi fanno scaturire melodie da radici, tibie di capre o d’uomo. Usano anche strumenti a corda, costruiti in mille maniere e risonanti se esposti giustamente ai fulmini e ai venti. Ogni cosa ha un’anima e un linguaggio: dagli anelli legnosi degli alberi si potevano captare i pensieri del vento e dai mutamenti dei fusti si poteva conoscere l’intercalarsi di periodi di siccità ai piovosi; suoni si potevano anche sentire nei sottofondi marini. La lunazione viene festeggiata dalle donne di Kefa e i vecchi aspettano la liberazione dalla debolezza del corpo; ognuno ha desiderio dei campi dell’oblio.
Nel corso dell’esplorazione i pellegrini conversano di Dio. Per Anficrate l’accelerazione centripeta dall’infinito al finito lo fa suddividere in milioni d’Iddii. Parla anche degli anti-Iddii, le cui puntiformi catene si depolarizzano in gole acquose e nelle rugiade dei sottoboschi.
Per l’invasione di strani uomini si disgrega la comunità dei Minii. Convinti del declino dell’isola, progettano l’esodo anche se la condotta da tenere non era univoca:
Le donne dalle finestre, col capo coperto dallo scialle, asserivano come sia male lasciare la terra in cui si odono i bambini crescere e le capre nei prati bucare.
Tycho, amato da Abinzoar, inghiottito dal mare è “costretto a fare e a rifare cammini senza meta”. Lei disperata lo cerca, mentre il padre la chiama. Senza pace spera di poter trarre suoi segni ed ecco la sua fine: “Lei confondeva le schiume con Tycho, suo fanciullo divino”. Gerim, si legge nel romanzo, nella grotta incide la mappa della morte, colorandola con sangue di rettili, ocra e polvere di berillo. Un modo questo di far luce sull’enigma del perire:
“Perché t’accanisci a farlo?” gli chiese l’amico.
“Voglio chiudere in un grafico l’inconcepibile.”
“Sono sempre dei segni, credimi. Delle chimere sul viaggio mortale.”
Gerim non gli rispose. Scolpiva.
“Bisogna ricorrere ad altri mezzi. Ritrasformare cioè in concreto quello che fugge e si disfa.”
Coinvolge la follia di Narbikar che, allo scopo di eternare la sostanza transeunte, veglia la sua creazione ricondotta ad uno stato di materia incorruttibile: il gran cristallo-Abinzoar, la ragazza-diamante realizzata unendo le spoglie di Abinzoar con silici e minerali di una grotta esposta ai raggi cosmici. Dopo la deposizione del cadavere in una nicchia della roccia, così espone il senso della giacitura di lei:
Voleva dunque che da austro a austro e da borea vi arrivassero blandi il giorno e la notte e vi si rinnovassero inclinati rispetto all’enclitica del mondo dopo essersi rifranti per piantine d’ezob e vecchissimi arganiet. Diceva per questa ragione. […] Raggiunta la desiderata posizione di Abinzoar, delimitata da opali e adularie su cui pagliuzze rimanevano libere (in uno spiraglio penetrò una lacrima di Anficrate), il nostro amico ci pregò di sederci a terra a gambe incrociate. Gli demmo credito allorché ci disse che, elisa la instabilità della morte, avevamo creato un nuovo organismo che, di già colpito da pannelli luminosi in sequenze di elettroni turbinosi, ci anticipava più che afflizione, serenità e il desiderio del nulla.
Si ritrovano accomunati dalla pietas (stato d’animo connaturato alla dimensione classica delle metamorfosi), gli amici che manifestano il loro scetticismo sull’intervento messo in atto da Narbikar: contrastavano, sostenevano, con la legge del divenire che ignora l’intranseunte. La sua “temperata follia” tuttavia lo spingeva ad attribuire proprietà divine a quei fossili. In merito ha scritto Ambra Carta:
in Bonaviri è infatti forte il bisogno di Assoluto, di fissare anche solo per un attimo l’“essenza” dell’essere al di là del transeunte, il cui dinamismo tuttavia trova spazio in una prosa agile e fluida, spiraliforne e fluttuante.
(A. Carta, “La parabola letteraria di Bonaviri: dal neorealismo all’espressionismo” , in "Studi e problemi di critica testuale", n.70, 2005)
Intanto maturano i pellegrini la decisione di lasciare l’isola perché vi scorgono mutamenti in negativo:
Abbiamo perduto Narbikar sempre chiuso nello speco per indagare ceneri e piante morte. Né sappiamo nulla di Ormazd che in certi momenti ci dilettava con le sue rime. Perché restare, dunque?
Di discorso in discorso Gerim presenta la sua riflessione sul divenire e sulla metamorfosi della natura umana:
Voglio ancora dirti che siamo noi a creare simboli, a colorarli, ingigantirli, mentre la coscienza con una gradualità scalare arriva indietro sino all’infinitesimo pensante dei cristalli. Noi siamo unità puntiformi in cui l’energia si è altamente organizzata.
In merito al destino dell’uomo: “La morte è la detrazione del campo psichico. Resta la ingannevole materia”. Per Ne’eman è nel sonno che si sente la natura contigua del niente e dell’infinito. Troos, mentre la barca procede sopra i flutti, mostra le scene da lui ritratte sulle croste arboree: sono rappresentazioni di vita campestre quotidiana e familiare che si intrecciano con il fantastico. Pareva loro che la madre – una delle diverse figurazioni che rimandano alle conoscenze di Bonaviri sulla demopsicologia - con una voce “molle e melodiosa” cantasse mentre con una cordicella cullava il figlio in un’amaca sospesa sul letto.
Narbikar non aveva più abbandonato la grotta. Lo struggeva la malinconia e si stendeva in diverse posizioni affinché da Abinzoar e dalle piante gli giungessero sul corpo macilento riflessi in gran quantità. Il suo desiderio, pensava uno degli amici, era di voler trasferire il suo corpo nella immutabile esistenza sassosa: “Lui voleva cambiare natura, essere sasso e nulla, ecco perché si era innamorato di Abinzoar per sempre impressa nella trama cristallina”. Prima di morire con un atto di umiltà “rinnegò se stesso, i suoi occhi, la mente da lui creduta illimitata, e quivi, senza nessun pro della vita, morì”.
In preda ai ricordi, Ormazad il rimatore si addormenta lasciando il grave pensiero della caducità di Abinzoar. Ma appena sveglio ne sente la voce e aumenta la sua afflizione; sicché decide di riprodurre le memorie perdute, catturando passato e futuro. Immerso nei suoi “anni-ricordo” plasma in oggetti visibili tutto quello che è in suo desiderio. Capisce poi che sta attraversando il regno delle ombre e ricrea col fiato il simulacro della figlia. Come ha osservato Andrea Gialloreto in Le cosmogonie familiari di Bonaviri (su google):
Ormazd […] rinnova […] il canovaccio delle storie mitiche di genitori in lutto alla ricerca dei figli oltre le frontiere dell’aldilà. La distanza tra padre e figlia […] appare incolmabile finché ella è in vita […] il solco si rimargina, invece, dopo che la ragazza viene rinvenuta morta […] Solo allora Ormazd troverà la pienezza dell’incontro con la figlia avvalendosi delle sue facoltà di Orfeo tragico, giunto alla convinzione che il segreto dell’identità riposi nella memoria dell’uno e del molteplice.
Giunto alla fine, così s’eleva la sua invocazione: “Vieni a me! Riemergi!”. E il monte Halom non gli dà quiete, facendo riapparire “sotto mille aspetti e iridiscenze” il viso della figlia. Non potendo far convergere in se stesso forze divine, chiama il Tempo e il Tartaro:
Non si seppe nulla di lui. […] insensibilmente riuscì a sbarazzarsi della struttura d’uomo, [...] Data la sua immortalità, nei momenti di maggior turbamento mandava fuori di sé immagini diafane e tristi suoni che di vuoto in vuoto salivano in quell’opaco confine terrestre, avvertiti da qualche procellaria adatta al volo alto, oppure giù, nei gorghi, da ossa di uomini e da ninfe solitarie.
Essendo il materiale di questo romanzo assai suggestivo, si avrebbe la voglia di farne una lettura più puntuale che desse ragione dell’inventività di Bonaviri. E ci si troverebbe a dover parlare degli esseri immaginari (le donne-scorpione, gli uomini unicorni e gli omuncoli microscopici transitanti nelle acque intorno all’isola). Si riterrebbe significativo soffermarsi sulla migrazione dei Minii, sui loro rituali attraverso i quali possono ascoltare le voci dei morti, nonché sulle loro devozioni seleniche; e si avrebbe voglia di dare risalto alla decadenza della natura paradisiaca dell’isola con la deriva verso nord di quello spazio galleggiante, tant’è che i pellegrini vi colgono segnali di degenerazione dovuti anche alla presenza di uomini dediti alla deforestazione per avidità e condotta per mezzo di devastanti incendi. Complessa e problematica è in sostanza la vena letteraria di Bonaviri per la predilezione di un linguaggio originale profondamente legato al destino dell’uomo.

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