Il turno
- Autore: Luigi Pirandello
- Genere: Classici
Il turno di Luigi Pirandello racconta di un padre, che giudicheremmo oggi freddo e calcolatore, Don Marcantonio Ravì, che decide di far acquistare una ricca dote alla figlia Stellina facendola sposare ad un vecchio vedovo settantenne, Don Diego Alcozer.
Il progetto del padre è lampante: convinto che l’anziano marito non sopravvivrà a lungo, spera che Stellina divenga presto vedova ed erede di una grande fortuna; ad aspettarla solo qualche anno di sacrifici e poi ella, ancora giovane e con tutta la vita davanti, potrà sposare il suo spasimante Pepè Alletto, un giovanotto elegante e raffinato ma caduto in rovina, un po’ sempliciotto, di cui è innamorata.
Da qui il senso del titolo: Pepè dovrà aspettare per un un po’ il suo “turno” per potersi unire alla bella Stellina. Ma la seconda parte del romanzo farà capire che i disegni umani spesso crollano per il capriccio della “fortuna”.
I progetti, per quanto ben congegnati e per quanto fino all’ultimo possano sembrare riusciti, falliscono sempre perché si impigliano nella rete di equivoci che essi stessi hanno contribuito a creare. La ragione di Marcantonio Ravì è quella del tornaconto personale: egli non solo la difende a spada tratta contro ogni altro tipo di motivazione che gli viene opposta, ma si stizzisce, è incredulo nei confronti di chi la pensa diversamente. Lo fa per il bene della figlia e, possiamo crederci, quando afferma ciò è sincero. Egli ama teneramente Stellina, tanto da non volerla veder maritata a chi non sappia darle tutte le comodità e gli agi di una gran signora.
Pubblicato nel 1902, “Il turno” può essere considerato un romanzo breve o un racconto lungo. Come per L’esclusa, i fatti sono ambientati in Sicilia, la solita terra di inganni e convenzioni, quell’isola così cara a Luigi Pirandello, densa di volti noti da dipingere, di paesi e di caratteri.
Dalla memoria dello scrittore affiorano oggetti, scene, figure, come una visione mediata che fa sì che anche il tempo perda la sua connotazione di misura precisa dei fatti e si dilati a piacere. Il tempo è quello veloce e frettoloso di Stellina che non vuole aspettare, è quello di Ravì che accorcia la vita dell’Alcozer nella sua mente che progetta, ma è anche quello delle giornate infinite e monotone di Filomena e del passato congelato nel presente della mamma di Pepè, che dorme ancora col figlio e conserva una casa polverosa, dove gli oggetti sono come monumenti, fissi, immobili.
La realtà si sovrappone quindi all’azione degli uomini e la contrasta in una risata di scherno; i personaggi restano intrappolati in questa dualità senza riuscire più a uscirne. L’individuo è visto non come un’entità isolata ma sempre in riferimento alla società in cui vive e si muove.
L’oggetto della riflessione che produce il pirandelliano “sentimento del contrario” è costituito dall’individuo nella società provinciale siciliana di fine secolo e dalla sua sconfitta quando cerca di agire autonomamente.
In quell’ambiente si muovono figure grottesche, maschere ridicole, a cominciare dal giovane Pepè, colto e raffinato, ritenuto un inetto che cerca di mantenere a fatica il lusso anche nella povertà che lo attanaglia. Troviamo poi l’avvocato Ciro Coppa, un uomo ottuso roso dalla gelosia, Marcantonio Ravì, considerato un freddo calcolatore ma in realtà un bizzarro padre affettuoso, il vecchio Alcozer, che ha portato al camposanto ben quattro mogli e, alla sua veneranda età, è pronto a sposarsi nuovamente. I regalini che fa alla fidanzata sono gioielli appartenuti alle precedenti consorti: non ha bisogno di comprarli, ha oggetti femminili di ogni sorta che gli avanzano.
Stellina si barcamena fra la voglia di libertà e la lusinga che gli oggetti preziosi producono nel suo cuore inizialmente semplice e non meno materialista di quello di suo padre. In seguito capirà e maturerà.
Alcuni critici hanno considerato questo romanzo come il meno pirandelliano e vi hanno voluto vedere uno stile ancora aderente al verismo, non “novecentesco”. I personaggi si muovono, in apparenza, in maniera automatica, spinti dalle passioni (la gelosia, l’onore) o dalle proprie intime convinzioni. Le donne sono quasi prive di personalità, inconsistenti.
La successione di sconfitte umane nei confronti del destino può far pensare per un attimo ai Malavoglia di Verga, a quella umanità che si dimena inutilmente e che non avrà mai possibilità di riscatto. Gli sconfitti si barcamenano tra rivalità e alleanze, sottomessi ai loro utili meschini. La società è arretrata e statica, questo è vero, ma i personaggi sono già intrisi di manie tutte pirandelliane, le loro ossessioni si fanno maniacali e questo non è frutto della società, ma della coscienza. La madre di Pepè conserva una polverosa dignità ormai in disfacimento e dorme tuttora col figlio trattandolo come un infante, Filomena si è talmente convinta di una grave malattia che finisce per prenderla, il Coppa educa i figli in una ferrea disciplina militare... può bastare? Stellina, lungi dall’essere inconsistente, è in realtà una sorta di Mirandolina che, dopo un periodo di inerzia e obbedienza al genitore, vi si oppone con le più micidiali armi che possiede e riesce a spuntarla. Non sente ragioni. Una donna inconsistente?
Il racconto ci offre, al pari delle migliori opere del nostro autore, una stessa minuziosa, quasi scientifica, descrizione della debolezza umana, dell’incomprensione e di quella che chiameremmo, con Verdi, la forza del destino.
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L’umorismo del contrario è l’ispirazione stessa, l’intonazione e la sostanziale vivacità artistica de «Il turno», come dell’opera pirandelliana in genere; è l’emblema della finzione.
Il “Turno” è il secondo romanzo scritto nel 1895, data citata nell’edizione fiorentina di Bemporad del 1929. Pubblicato a Catania nel 1902 dall’editore Nicolà Giannotta, Nell’edizione Treves di Milano del 1915, ripubblicato insieme alla novella “Lontano”, ha come sottotitolo “Novelle di Luigi Pirandello”. Si tratta di scritti della prima giovinezza giudicati dall’autore “...l’uno gajo se non lieto, e triste l’altro”. Difatti la narrazione de “Il turno”, considerato dall’autore un racconto lungo più che un romanzo, ha un intreccio comico espresso, a dire di lui stesso, da una “schietta vivacità della rappresentazione”. Lo compongono trenta brevi capitoli ciascuno dei quali ha una fisionomia singolare di situazioni e ambienti, di soggetti vicende facenti parte di una tramatura architettata da Marcantonio Ravì. Prevalente dunque il “ludus”, scherzo condito da un caleidoscopio di trovate esilaranti. Eppure, l’ombra è in agguato: ciascun personaggio ha la propria scontentezza, perché i desideri restano inappagati. E’ l’irruzione dell’imprevedibile nella scena a renderli vani. La comicità si rovescia nel suo contrario: i conti non tornano più quando gli eventi sono ribaltati da una imprevedibilità incontrollabile. Sicuramente l’opera avrà esercitato un fascino particolare in Andrea Camilleri non solamente per il gioco divertente con cui vengono trattate le situazioni, ma soprattutto per la spigliatezza linguistica che attinge molto dalla parlata vernacolare (l’uso di passaggi gergali, di molti intercalari, di esclamazioni). Le parole sono quelle usate nella quotidianità, brillanti i dialoghi e coinvolgente l’azione recitativa dei personaggi. Ecco in sintesi i passaggi più significativi. Don Ravì ha l’idea fissa di fare la felicità della giovanissima figlia Stellina; per attuarla egli intende stabilire un turno, sposarla dapprima al ricco e plurivedovo don Alcozèr dagli “occhietti calvi scialbi acquosi”. Il suo piano è utilitaristico: alla morte di lui, prevedibilmente vicina data l’età avanzata, la figliuola, ricca per eredità, potrà sposare, l’uomo del cuore, don Pepè Alletto, giovane per bene ma squattrinato. Il turno è macchiettisticamente intrappolato nella mente di don Ravì, mentre il suo motto è “Ragioniamo!”. Pepè Alletto, che non aveva mai pensato seriamente di chiedere la mano di Stellina, resta sorpreso dell’idea che gli viene da questi comunicata e l’accoglie favorevolmente: anche lui avrebbe infine risolto tutti i suoi problemi con una moglie giovane e una consistente dote. Esilarante la comicità delle nozze segnate da un susseguirsi di colpi di scena fino a quando gli invitati lasciano in fretta la festa. Con il legale scioglimento del matrimonio il turno è compromesso. E’ l’avvocato Ciro Coppa a mettere le mani su Stellina. Costui, pur avendo buona salute, muore improvvisamente. Sicché, Pepè può sposare Stellina insieme alla sua dote: non quella del primo marito, bensì del secondo. Ogni piano programmato dunque fallisce per l’irruzione dell’imprevedibile tale da sostituire alla realtà sperata quella che effettivamente prende il sopravvento. Sono le contraddizioni a mutare i propositi. Il corso delle cose si svolge non secondo l’intenzionalità, dal momento che assume un andamento non voluto. Falliscono lungo il percorso le previsioni di Marcantonio Ravì, il “deus ex machina”. Se ne rende conto assistendo alla morte di Ciro Coppa. Le sue parole attestano ciò che egli ha appreso dalla vita anche se in definitiva, sia pure tortuosamente, il piano si realizza: “Questo, che pareva un leone, eccolo qua: morto! E quel vecchiaccio, sano e pieno di vita! Doman l’altro, sposa Titina Mèndola, la tua cara amica...”. Come non toccare con mano “l’umorismo del contrario” teorizzato da Pirandello? Tina è figlia di Carmela Mendola, la “portavoce del vicinato”: quella che aveva considerato “peccato mortale che grida vendetta” l’unione di Stellina con don Diego.