I giganti della montagna
- Autore: Luigi Pirandello
- Genere: Arte, Teatro e Spettacolo
“I giganti della montagna” è un dramma teatrale scritto tanto tempo fa e rimasto incompiuto a causa della morte dell’autore, ma che ha ancora da regalare emozioni vivide e da insegnare preziose conoscenze sul mistero della vita umana.
Una villa tra le montagne che pare abbandonata. Un gruppo di teatranti male in arnese che decide di trovarvi riparo. Ma nella casa ci sono già, come spettri vaganti, alcuni abitanti che inizialmente tentano, con un finto temporale prodotto con lamiere e scoppi, di spaventare gli attori ma poi, quando questi ugualmente si avvicinano, benevolmente li accolgono. Tra di loro vi è una contessa, Ilse, ovvero un’attrice che, per un certo periodo, è stata contessa per aver sposato un conte, ma poi di lei si innamora un poeta, le dedica un dramma e infine, rifiutato, si uccide. Allora Ilse torna alla sua vera natura e porta in giro per il mondo quel pezzo teatrale che all’autore è costato la vita e che è, in realtà, una commedia dello stesso Pirandello, "La favola del figlio cambiato". Anche nella favola il protagonista, il figlio cambiato appunto, rifiuta onori e ricchezze per riappropriarsi della sua identità. Il messaggio di Pirandello è assai chiaro: un testamento spirituale, un’opera della vecchiaia in cui si dichiara ad alta voce che l’importante è la nostra vera essenza, non l’apparenza, l’intima identità che va conservata anche a costo di perdere tutto, persino la vita.
I teatranti decidono di mettere in scena il loro lavoro davanti ai giganti della montagna, esseri rozzi e materiali che vivono nei pressi e che sono diventati potenti costruendo opere monumentali. Il dramma si conclude con l’arrivo dei giganti al galoppo e con le parole di Diamante, una dei teatranti: "ho paura..."
Sarà Stefano, il figlio di Pirandello, a offrire al lettore una traccia del finale che, a suo dire, il padre stesso gli avrebbe palesato. I giganti non accettano di assistere alla rappresentazione ma vi inviano i propri servi, come dono per il lavoro svolto, ma anche i servitori sono rozzi e maleducati, non accettano la finzione della scena e travolgono Ilse uccidendola. Assai importante, all’interno del dramma, è la presenza dei fantocci che rappresentano i personaggi e che a un certo punto, dalla loro posizione fissa, cominciano a muoversi e a commentare l’agire degli uomini. Il personaggio oramai vive di vita propria, è prodotto dalla fantasia dell’autore e non ha più bisogno della mediazione dell’attore che diviene perciò un guscio vuoto, inutile. I fantasmi invece sono reali più che mai, non a caso il dramma prende spunto da una delle "Novelle per un anno" dal titolo "Lo storno e l’Angelo Centuno" dove una vecchia chiamata Poponé viene accompagnata da una schiera di angeli in un suo viaggio notturno e, alla fine, le viene profetizzata la sua imminente morte.
Anche in "Giganti della montagna" appare questo personaggio, anche se con un nome diverso, pertanto siamo portati a pensare che, se la profezia si è avverata, questa vecchia signora non sia altro che un fantasma. Gli uomini agiscono nel sogno, si guardano dormire e svolgono la loro vita mentre il corpo è incosciente.
Troviamo un nuovo Pirandello che, con quest’opera concepita nella vecchiaia, quando oramai sentiva vicina l’ombra della morte, insegna all’uomo che l’importante non è la maschera, né l’apparenza e tanto meno il corpo. Ciò che conta è l’impalpabile, l’invisibile, la larva. In altre parole, se ci possiamo azzardare, lo spirito, l’anima. Rappresentato da compagnie prestigiose questo pezzo teatrale è stato messo in scena anche da Strehler che lo ha mirabilmente e fedelmente portato sul palcoscenico.
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Il terzo mito, “I Giganti della Montagna” (rimasto incompiuto), trova ideazione nei primi mesi del 1928 e la prima rappresentazione, quella incompiuta, si tiene il 7 giugno del 1937 nel giardino di Boboli, in occasione del Maggio Musicale Fiorentino. Ecco in sintesi la “fabula” che può essere intesa a vari livelli interpretativi. Cotrone e i suoi otto “Scalognati”, vale a dire gli sfortunati, dimorano nella magica e strana villa della Scalogna che, solitaria, si trova in una valle deserta ai piedi di una montagna. Il paese sta alle sue falde: vi domina un piatto conformismo e, in sostituzione del teatro, c’è un piccolo stadio per le corse e per le lotte. Da lì Cotrone è stato costretto a fuggire perseguitato dagli scandali e a causa dei suoi esperimenti magici che l’avevano “diverso”. Come vocazione, gli Scalognati, “padroni di niente e di tutto”, vivono di fantasia e di poesia, di sogni e di preghiera: sono poeti dallo sguardo trasognato; seguono i dettati della povertà e hanno la ricchezza del necessario. La loro libertà è quella dell’immaginazione e dell’imprevedibilità, il loro linguaggio è totale: mimico, figurativo, musicale. Come i poeti-fanciulli vivono una realtà meravigliosa: “alienati da tutto, fino agli eccessi della demenza”. Il tempo e lo spazio, tipici dello stato di veglia, non governano l’ “arbitrario”: la vita contemplativa plasma la coscienza e le figure fantasiose che vedono sono un desiderio dello sguardo. La loro esistenza è una proiezione della psiche e la verità, che viene fuori dalle caverne dell’istinto, è inventata. E’ la vita della “beata innocenza” a trionfare e l’anima, non più succube di sovrastrutture ideologiche, si disperde in “favolose lontananze” fuori dai limiti della logica. L’attrice Ilse Pausen, suo marito e otto compagni, superstiti di una compagnia teatrale dispersa, un giorno esausti giungono alla villa su suggerimento di un amico. Il desiderio di Ilse è quello di allestire e rappresentare un dramma in versi. Si intitola La favola del figlio cambiato: è l’opera di un poeta che, innamorato di lei, si è ucciso, perché respinto. Vuole adesso ridargli vita con la sua arte, facendolo rivivere con la recitazione. A costo di qualsiasi sacrificio vuole portare a termine la sua missione “sacra” per realizzare se stessa entro il rapporto arte-amore. Ha dedicato la sua vita a tale opera, essendo convinta dell’alta poetica, e ha resistito a ogni avversità pur di realizzarne la messa in scena. Quella favola è il “teatro nel teatro”, il “nucleo del dramma” in forma fiabesca. Parla del dolore di una madre a cui le “Donne”, una sorta di streghe del folclore agrigentino, sostituiscono nella culla il proprio figlio, un bimbo bellissimo, con una creatura demente e storpia. Vanna Scocca, fattucchiera che ha rapporti con loro, la rassicura, dicendole che il suo bimbo vive felice alla corte del re, ritenuto figlio di costui. L’imprevisto non tarda a realizzarsi. Fattosi ormai grande, per il bisogno di sole e di mare, il principe fa ritorno nella città da cui con l’inganno era stato allontanato. La madre lo riconosce subito come suo figlio mentre costui sta per ritornare in patria e prendere il posto del re, nel frattempo morto. Appena lei gli si rivela, il principe decide di rinunziare agli onori e alle ricchezze, di rimanere e di cedere la corona all’altro, il mostriciattolo, che aveva preso il suo posto. S’incontra anche la favola dell’Angelo Centuno, tratta dalla novella Lo stormo e l’angelo Centuno (1910). Appartiene al patrimonio favolistico degli Scalognati e a raccontarla, su sollecitazione del Cotrone, è la Sgricia che dilata nel sogno la realtà. Cotrone invita Illse a fermarsi nel regno della poesia, dove si realizzano i sogni dell’arte. Ma lei, che ha il teatro nel sangue, vuole affrontare il pubblico degli uomini. Sicché, egli propone di offrire la sua favola ai Giganti e ai loro servi. Personificazioni sovraumane del potere titanico, vivono sulla montagna, costringendo le forze della natura a obbedire alla loro volontà; di vichiana memoria, sono “duri di mente e un po’ bestiali”; praticano in modo arrogante l’esercizio della forza. Stanno per celebrare una colossale festa nuziale, all’improvviso la loro cavalcata produce un immenso fragore da incutere paura. L’opera si interrompe con il sopraggiungere del terrore; l’epilogo, cioè il terzo atto, viene suggestivamente elaborato dal figlio Stefano sulle indicazioni orali dategli dal padre qualche ora prima che morisse. Nell’ultimo atto Cotrone guida Ilse e gli attori alla casa dei Giganti, dove si sta svolgendo il banchetto di nozze. Loro acconsentono alla tenuta dello spettacolo con un lauto compenso per la compagnia. Vi assistono il popolo e i servi che non sanno nemmeno cosa sia il teatro. L’ignoranza degenera nella violenza e la rappresentazione subisce una sorte crudele. I servi dei Giganti uccidono Illse, il cui corpo è spezzato, come “un fantoccio rotto” e due degli attori accorsi in suo aiuto. Il marito grida sul corpo della moglie l’uccisione della poesia nel mondo, ma Cotrone comprende che nessuno è colpevole dell’accaduto: “Non è, non è che la Poesia sia stata rifiutata; ma solo questo: che i poveri servi fanatici della vita, in cui oggi lo spirito non parla, ma potrà pur sempre parlare un giorno, hanno innocentemente rotto, come fantocci ribelli, i servi fanatici dell’Arte, che non sanno parlare agli uomini perché si sono esclusi dalla vita, ma non tanto poi da appagarsi soltanto dei proprii sogni, anzi pretendendo di imporli a chi ha altro da fare, che credere in essi”.