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Recensioni di libri

Il segreto del Bosco Vecchio: commento al romanzo di Buzzati

Il romanzo-fiaba di Buzzati, edito per la prima volta nel 1935, rientra egregiamente nel genere fiabesco.

Graziella Atzori Pubblicato il 18-06-2021
Il segreto del Bosco Vecchio: commento al romanzo di Buzzati

Il segreto del Bosco Vecchio: commento al romanzo di Buzzati

  • Autore: Dino Buzzati

Le fiabe con le loro allegorie e i loro simboli sono forse il linguaggio più efficace per entrare nei misteri della vita e comprendere i meccanismi della psiche. Affascinano come avvincono i sogni, lasciano un sentimento di stupore, risvegliano il mondo affettivo, così necessario affinché l’intelligenza legga meglio e penetri la realtà esteriore e interiore.
Il romanzo-fiaba Il segreto del Bosco Vecchio di Dino Buzzati (Mondadori editore, 1991, pp. 178, a cura di Lorena Fiocco e Maria Pia Cottini) rientra egregiamente nel genere fantastico fiabesco. La prima edizione è del 1935; è del 1993 la splendida versione cinematografica di Ermanno Olmi.

Il bosco e l’uomo

Il libro consta di 40 brevi capitoli, scritti con stile affabulatorio, veloce, limpido. Hanno voce animali e alberi, il vento, la foresta misteriosa è popolata di geni, ognuno a guardia di un abete, abitatore di un tronco, ma capace di venir fuori in veste di uomo oppure animale durante il giorno ma ancor più la notte. La natura animata risveglia il sentire atavico, certamente prerogativa della primissima infanzia e facente parte del pensiero immaginale. Tutto è spontaneo, vivo, incorrotto. Corrotto è l’uomo, uno dei due protagonisti, il colonnello Sebastiano Procolo, che vorrebbe sfruttare il Bosco Vecchio per disboscarlo e guadagnare con il commercio del legname, avendo in mente soltanto il profitto. Che gli alberi possano morire… A lui non importa un piffero. Vorrebbe anche derubare il nipote Benvenuto, un bambino orfano e gracile di dodici anni, della sua eredità terriera. Medita perfino di ucciderlo con la complicità del vento Matteo, malefico e senza scrupoli. Anche la natura quindi sa commettere delitti con intenzionalità? Qui il vento è metafora della prepotenza bruta, quella umana.

Il bosco è l’inviolato mondo divino, nel quale vige la legge morale naturale; infatti assistiamo a uno straordinario processo nei confronti del colonnello da parte di uccelli radunatisi in convegno notturno, presieduto da un giudice gufo.
Sebastiano Procolo è così duro di cuore da uccidere la gazza sentinella con una fucilata, solo per una sua crisi di nervi. La gazza muore recitando una poesia, dedicata ai suoi fratelli; qui Buzzati tocca vette di grande lirismo, pur conservando un tono in apparenza distaccato, quasi da giornalista.

Sebastiano, nonostante la sua devianza psichica, conserva una sua nobiltà, per esempio il senso dell’onore, sa e vuole tener fede alla parola data. Sebbene sia un adulto calcolatore, possiede la doppia vista e vede i geni i veri padroni del Bosco Vecchio, così vuole sottometterli e sfruttarli. Ma cambierà.

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Il dramma della crescita

La fiaba è una storia di redenzione, il vecchio colonnello scopre di provare affetto per il nipote e per lui sacrificherà se stesso. Benvenuto impara a essere "grande", a sostenere e superare le prove, a fronteggiare il disprezzo dei compagni data la sua debolezza fisica (i bambini sanno essere crudeli!), fino a conquistare la loro stima.
Tutto ciò comporta un prezzo, costa dolore e perdita. La fine della visione, dell’innocenza.

Il bambino, diventato adolescente, perderà l’incanto del mondo animato? Buzzati sembra propenso per il sì. Fa pronunciare queste parole al vecchio vento Matteo, anche lui divenuto gentile e amico, rivolte al ragazzino:

"Tu domani sarai molto più forte, domani comincerà per te una nuova vita, ma non capirai più molte cose: non li capirai più, quando parlano, gli alberi, né gli uccelli, né i fiumi, né i venti. Anche se io rimanessi, non potresti, di quello che dico, intendere più di una parola. Udresti sì la mia voce, ma ti sembrerebbe un insignificante fruscìo, rideresti anzi di queste cose. No, forse è meglio così, che ci separiamo al punto giusto.”

Ma è davvero così? Dobbiamo necessariamente cedere alla fredda ragione l’ipersensibilità, la coscienza empatica di appartenere all’Uno Tutto, qui rappresentato dal bosco magico? Forse no, se sappiamo conservare il candore e la meraviglia dell’infanzia, che significa essere poeti, mistici, sapienti nel modo in cui Hermann Hesse suggerisce nel suo famosissimo romanzo da Nobel Siddharta, dove la coscienza cosmica dell’unità primordiale suscita estasi e felicità.

In queste pagine si incontra anche il dramma del tempo che scorre, scivola inesorabilmente via, con la consapevolezza di quanto si perde vivendo. È Sebastiano a sperimentare la dimensione del tormento, legata alla morte:

"Egli sentì tutto intorno il greve silenzio della vecchia casa, carico di enigmatiche risonanze, lasciò passare adagio il tempo, il tempo meraviglioso che s’ingrandisce d’ora in ora, inghiottendo senza pausa la vita, e accumula con pazienza gli anni, diventando sempre più immenso.”

Forse perciò l’uomo diventa avido, sembra suggerire Buzzati con fine psicologia.
Ma ogni opera d’arte è capace di risolvere i conflitti, di ricomporre l’armonia perduta dall’uomo. Alla fine il colonnello è congelato nella neve per amore del nipote; lo vediamo sognare il suo vecchio reggimento, che in una grandiosa scena onirica sfila per rendere omaggio al vecchio comandante, in grado di ritrovare il senso di quanto è perduto nella visione. Il suo esercito amato scompare dentro il Bosco Vecchio, nell’eternità.

Sogno, magia, nostalgia, umanità e natura sono intrecciati in un affresco che, alla fine della lettura, si abbandona con rammarico. L’animo resta saturo di sentimento panico, con un senso di gratitudine per esistere in un mondo tanto stupendo.


© Riproduzione riservata SoloLibri.net

Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il segreto del Bosco Vecchio: commento al romanzo di Buzzati

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