Gli ultimi ragazzi del secolo
- Autore: Alessandro Bertante
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Giunti
- Anno di pubblicazione: 2016
Dalla Milano da bere ad una Sarajevo senz’acqua
In due, a venticinque anni, da Milano ai Balcani devastati dall’ultima guerra europea, prima del conflitto asimmetrico con le schegge islamiche nel continente. È la proposta di Alessandro Bertante, nel suo quinto titolo, “Gli ultimi ragazzi del secolo” (Giunti Editore, 218 pagine, 16 euro), in libreria dal 20 gennaio.
Due ragazzi italiani, nel luglio 1996, salgono sopra un’auto scassata, una vecchia Panda marrone col tettuccio apribile, che sbuffando li porta in Bosnia, sul cratere del conflitto civile, etnico, religioso, cessato solo sette mesi prima.
Alessandro, a un passo dalla laurea in lettere e Davide, anche lui alla vigilia di una svolta nella vita, viaggiano soli, ma determinati a proseguire, in direzione Sarajevo, via Mostar.
Erano in vacanza in Croazia, sull’isola di Hvar - celebre per la bellezza del mare, il vino bianco, le coltivazioni di lavanda e le piantagioni di marijuana clandestine, scrive Bertante - con due amiche di Milano che hanno preso un’altra decisione e quindi un’altra strada. Poi un incontro casuale: tre ragazzi bosniaci, il più giovane senza un braccio e con mezzo volto deturpato dalle ustioni. È stato un proiettile di mortaio.
In questo posto non servite a niente, andate a Sarajevo, non restate qua.
La loro estate cambia e, spinti dal rimorso di appartenere ad una generazione privilegiata rispetto ad altri coetanei, vanno non lontano in Europa.
Sembra ingiusto: altri hanno molto meno e devono difendere la vita stessa con i denti, dalle armi, dalle granate, dall’odio. Vogliono andare a capire cosa significa essere vittime, braccati da un nemico che non concede quartiere, vogliono vedere le ferite delle persone, le macerie delle case, i bambini senza sorriso, i crateri delle bombe. Quei ragazzi bosniaci hanno detto di avere bisogno dei loro occhi per rialzarsi.
È chiaro che c’è molto di personale in questo romanzo di Bertante (è nato ad Alessandria nel 1969 e vive a Milano), non solo la foto che lo ritrae in copertina bambino di nemmeno dieci anni. C’è la sua gioventù nella Milano-metropoli degli anni Ottanta. Era un “compagno”, un “alternativo”, vestiva di nero, entrava e usciva dal centro sociale Leoncavallo, in contrasto coi paninari, vestiti alla moda. Tutti laccati, tutti uguali: bomber, jeans, stivali con la para a carro armato, felpe colorate, abbigliamento rigorosamente griffato, di marca pure il frullato alla frutta.
La Milano “da bere” la stava spazzando il vento di Tangentopoli, ma in strada i marocchini vendevano ancora sigarette di contrabbando, stecche di Marlboro a buon prezzo. I negozi in centro e dintorni erano centinaia e illuminatissimi, pieni di merce per gli spettatori delle televisioni commerciali, gente che non va più alla Standa, che snobba i mercati rionali. In periferia, battevano ragazzine bionde e nere ed anche ragazzi arabi e slavi. Davanti a loro, nelle auto che rallentano a passo d’uomo, uomini anziani mezzi calvi valutano la merce dal finestrino.
Città falsa e imparruccata.
La generazione del ’68 ha perso la rivoluzione senza nemmeno farla. Quella del Terzo millennio, nativa digitale, si è trovata in mezzo al guado: ultimi giovani del ’900 e primi a usare il computer, siamo cresciuti disinteressati alla politica, ma pieni di stimoli creativi, riflette l’autore.
Le considerazioni di Alessandro rimbalzano, come il romanzo, da Milano alla Bosnia. Sarajevo è un inferno per le disorientate coscienze occidentali. C’è ancora il coprifuoco, sembra tutta una fossa, costruita com’è in una valle incassata. Le minime comodità sono una conquista in quella città cratere o un miraggio. Se l’acqua esce dai rubinetti è solo fredda. Non c’è un hotel, né pensione, camere in affitto o qualsiasi altra sistemazione. Non esiste un locale dove mangiare. Si vive della generosità di chi si incontra, ammesso d’incontrare gente generosa, perché sono in tanti come quel grassone sudato, con una camicia azzurra e una grossa pistola appesa a un cinturone, che alla fine dell’avventura li ferma per strada a Ploce.
Radar controla, dice. Andavano al massimo a trenta all’ora e quella specie di vigile o di postino non dispone di strumenti di rilevazione, non ha nemmeno qualcosa che lo renda identificabile. Radar controla, ripete. Chiede cento marchi. Si accontenta di trenta.
Via dalla Bosnia, tornano a casa, in un Paese dove la legge conta qualcosa in più di niente, dove il consumismo può essere addirittura confortante. Hanno cercato di capire: ci sono riusciti?
Gli ultimi ragazzi del secolo
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