Ricorre quest’anno il centenario dalla pubblicazione di La coscienza di Zeno, edito dall’editore Cappelli a Bologna nel 1923. Per l’occasione analizziamo il protagonista creato da Italo Svevo, Zeno Cosini, che inaugura la figura dell’inetto in letteratura.
Chi è l’inetto? È colui che per antonomasia si contrappone al superuomo d’annunziano, un uomo sostanzialmente incapace di vivere la vita e continuamente in contrasto con il mondo che circonda. È contemporaneamente il protagonista e l’antagonista della propria esistenza, un uomo alienato e consapevole del vuoto che lo circonda, il che lo rende una figura narrativa interessante.
Chi per natura non sa piombare a tempo debito sulla preda (...) e inutilmente starà a guardare come fanno gli altri, non li saprà imitare.
L’inettitudine può dunque essere interpretata come sorta di malattia, in termini freudiani, che si inserisce perfettamente nel contesto storico di quegli anni. Ci troviamo infatti in un’epoca di profonda crisi di cultura e di valori, in cui è venuto meno il collante del nazionalismo cedendo il posto a un senso di catastrofe imminente - poi confermata dall’avvento della Prima guerra mondiale. Questo sentimento di crisi darà origine a una vera e propria generazione letteraria di inetti, inaugurata da Svevo e poi proseguita da altri grandi scrittori come Robert Musil ne L’uomo senza qualità, Pirandello con Il fu Mattia Pascal, e infine Camus con Lo straniero.
Italo Svevo e la figura dell’inetto
Fu proprio Italo Svevo a nominare questo “tipo umano” nel suo primo romanzo, il cui titolo doveva essere originariamente Un inetto, ma fu poi modificato dall’editore in Una vita (1892). Il protagonista era un colto impiegato di banca di nome Alfonso Nitti, in cui oggi possiamo individuare il perfetto precursore di Zeno Cosini.
Nitti è un uomo che sostanzialmente fugge. Giunto in procinto del matrimonio con Annetta, culmine della sua agognata ascesa sociale, il banchiere decide di fuggire dalla città e tornare in paese per assistere la madre morente. Al suo ritorno, naturalmente, niente sarà come prima. Un atto di autosabotaggio clamoroso che caratterizza tutti i personaggi sveviani: da Emilio Brentani in Senilità a Zeno Cosini ne La coscienza di Zeno. In quest’ultimo romanzo di Svevo, considerato il suo capolavoro, tuttavia abbiamo svolta: Zeno Cosini rappresenta la rivincita dell’inetto, perché per la prima volta viene messo in luce un fatto, che l’inetto è più sano di coloro che si considerano normali, felici, completi, che non mettono mai in dubbio le loro certezze. Alla fine della terapia di psicoanalisi con il dottor S., Zeno si rende conto che i “sani” sono i veri malati, perché solo chi è a conoscenza di non avere tutte le risposte, di sentirsi alla costante ricerca di qualcosa, è un essere in divenire quindi non cristallizzato in una forma definitiva che soffoca la sua individualità.
Per questo la conclusione cui perviene il protagonista de La coscienza di Zeno è una sorta di riscatto della figura dell’inetto, rivelando l’inettitudine non come una debolezza, ma come un comportamento tutto sommato positivo, perché:
Solo noi malati sappiamo qualcosa di noi stessi.
Scopriamo l’evoluzione del personaggio dell’inetto in letteratura dalla Coscienza di Zeno allo Straniero di Camus.
La figura dell’inetto: Zeno Cosini
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Zeno Cosini non è propriamente un protagonista amabile. È un uomo che si è sposato solo per il gusto di farlo, con una donna (Augusta, Ndr) che non ama; un uomo che non riesce a liberarsi dal vizio del fumo; ha un rapporto conflittuale con il padre e trascorre le sue giornate in un ozio che rasenta l’apatia.
Con La coscienza di Zeno Italo Svevo propone un genere narrativo inedito, il romanzo psicoanalitico mostrandoci un uomo che si sottopone a delle sedute di psicoanalisi perché è complessato, ipocondriaco e sostanzialmente sente che la sua vita è stata una lunga catena di insuccessi. Si tratta di una narrazione inconsueta, che rompe la tradizione classica del romanzo ottocentesco mostrandoci per la prima volta un narratore inattendibile. La coscienza di Zeno infatti ci viene presentato come il memoriale delle sedute di psicoterapia pubblicate per vendetta dallo piscoanalista, il dottor S, dopo la decisione di Zeno di interrompere la terapia.
Il libro, pubblicato a Bologna nel 1923, ebbe un successo di pubblico inatteso, fu elogiato persino in un articolo Omaggio a Italo Svevo pubblicato da un giovanissimo Eugenio Montale.
Con il personaggio di Zeno, Svevo dava voce a un prototipo d’uomo fuori dagli schemi letterari completi: un antieroe, non bello, non brillante, non audace, pieno di paure e angosce, che riflette perfettamente l’idea - anche se estremizzata - dell’uomo comune. Quante persone, soprattutto al giorno d’oggi nella nostra società della performance, si sentono inadeguate perché spesso poste a confronto con modelli elevatissimi? L’inetto, a ben vedere, è una figura molto contemporanea e anche antica, perché vi possiamo cogliere un primo prototipo proprio nel poeta Giacomo Leopardi. Zeno si sottopone alla psicoanalisi perché vuole “guarire” dice, vuole credere come tutti gli altri nel progresso della società, essere fiducioso e ben inserito nel mondo che lo circonda. Ma è proprio sottoponendosi alla psicoanalisi che Zeno Cosini svela tutte le ipocrisie della società borghese che lo circonda, e infine comprende che:
La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio.
Zeno interrompe le cure perché capisce di non voler guarire dalla sua condizione di malato, dalla sua inettitudine, che rappresenta in realtà la sua salvezza poiché lo rende capace di mettersi in discussione. Capisce infine che la “salute” cui tanto anela non può essere trovata, perché il mondo, l’umanità intera, è irrimediabilmente contaminata e corrotta.
Il romanzo di Italo Svevo si conclude con la profezia di una catastrofe nucleare:
Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.
La figura dell’inetto in Camus
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Possiamo riscontrare questa tendenza all’inettitudine anche in un altro grande protagonista della letteratura contemporanea: Mersault, ovvero il protagonista de Lo Straniero di Albert Camus.
Le storie di Mersault e Zeno sono molto diverse, tuttavia possiamo rintracciarvi delle caratteristiche comuni.
Proprio come Zeno Cosini, anche il protagonista di Camus vive le proprie giornate in una condizione di svogliatezza, di ozio, di apatia, estraneo agli altri ma soprattutto a sé stesso.
L’incipit del romanzo ci dà l’esatta misura di questo stile di vita:
Oggi la mamma è morta, o forse ieri, non so.
Con una scrittura semplice, neutra, ridotta all’osso, Camus non compone un romanzo psicoanalitico, ma esistenziale, che riflette sull’uomo e soprattutto sulla condizione dell’uomo nel mondo. Mersault è un modesto impiegato di Algeri che, in un momento di apparente follia, uccide un arabo su una spiaggia.
Risulta infine il ritratto di un uomo che non è in grado di contrastare la realtà e quindi finisce per accettarla per quello che è. Infatti il protagonista di Camus non fa assolutamente nulla per difendersi: non si scagiona né si pente, né confessa.
La presa di coscienza del vuoto che circonda l’esistenza, argomento centrale nella crisi di inizio Novecento, lascia qui progressivamente spazio a un’altra angosciosa consapevolezza: l’assurdo insito nella vita.
Lo straniero fu infatti inserito da Camus nella cosiddetta Trilogia dell’assurdo che si conclude con un saggio Il mito di Sisifo.
Il segreto, ci svela Camus proprio nel finale del Mito di Sisifo, risiede nel prendere coscienza della propria condizione esistenziale. È quello che in fondo fa Zeno Cosini quando sceglie di interrompere la terapia; lo fa a suo modo anche Mersault nel finale dello Straniero quando guarda con indifferenza alla morte che lo attende.
La rappresentazione del mito greco: Sisifo che, condannato da Zeus, trasporta il proprio fardello, un enorme masso, sulla cima della montagna è l’emblema della condizione umana, dell’inettitudine insita nella condizione umana stessa.
Camus però chiude il suo saggio con una nota consolatoria:
Il faut imaginer Sisyphe heureux
Bisogna immaginare Sisifo felice, poiché sebbene la mente comprenda l’assurdità dell’esistenza infine trova proprio in questa apparente “mancanza di senso” l’unico senso possibile. L’universo che è “senza padrone” infine all’uomo-Sisifo non appare né sterile né futile:
Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.
Ecco dunque l’alternativa alla catastrofe prefigurata da Zeno Cosini o, forse, la sua compensazione. Camus conclude la sua Trilogia dell’assurdo offrendo una verità assoluta sulla condizione umana, portando cioè l’uomo all’accettazione di sé stesso, dei propri limiti e, di conseguenza, anche della propria inettitudine.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La figura dell’inetto in letteratura: da Zeno Cosini a Mersault
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