Fiabe, novelle e racconti del popolo siciliano
- Autore: Giuseppe Pitrè
- Genere: Raccolte di racconti
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Donzelli
- Anno di pubblicazione: 2013
La raccolta dello scrittore e studioso siciliano Giuseppe Pitrè, portata a compimento grazie al suo paziente lavoro e alla proficua collaborazione di altri studiosi e raccoglitori di materiale folclorico, ha la sua edizione definitiva nel 1875 con il titolo Fiabe, novelle e racconti del popolo siciliano ed è costituita in totale da quattro volumi.
Nel 2013 l’edizione integrale in dialetto siciliano con testo italiano a fronte è stata pubblicata da Donzelli con la traduzione di Bianca Lazzaro e la prefazione a cura di Giovanni Puglisi.
Fiabe, novelle e racconti del popolo siciliano si apre con la novella Peppi, spersu pri lu munnu (in italiano: “Beppe, sperso per il mondo”), raccolta a Salaparuta dal sig. Leonardo Greco e raccontata da Antonio Loria.
La novella ha un’ambientazione realistica che fa toccare con mano i problemi del lavoro nell’Ottocento siciliano. Si potrebbe dire di matrice verghiana appunto per la rappresentazione di una società rurale lacerata da precarie condizioni di vita. Anche la fantasia non manca: si staglia nettamente lungo lo svolgimento degli eventi che mostrano il protagonista nel suo cammino di riscatto, favorito dalla buona sorte.
Tracciamo appena una sintesi. Nella novella si racconta di Beppe, un ragazzo figlio di madre vedova che per mancanza di lavoro decide di andarsene per il mondo:
C’era ‘na matri vidua, e avia tri figghi: du’ fimmini e un omu; l’omu si chiamava Pppi. Chistu nun avia comu fari pri vuscàrisi nn’anticchia di pani: li so’ soru e la matri filavanu, e Peppi cci dissi: - <<Matri, sapiti chi vi dicu? Mi nni vaju spersu pri lu munnu.
C’era una madre vedova, e aveva tre figli: due femmine e un uomo: l’uomo si chiamava Beppe. Questi non aveva come fare per guadagnarsi un poco di pane: le sue sorelle e la madre filavano, e Beppe le disse: M“adre, sapete che vi dico? Me ne vado sperso per il mondo”.
Accolto in una fattoria, gli viene proposto di fare il guardiano di buoi, ricevendo in cambio soltanto da mangiare. Avvicinandosi la festa del Carnevale, Beppe si presenta imbronciato e chiede dei soldi per fare festa con i familiari, ma il padrone oppone un rifiuto alla richiesta poiché non rientra nei patti. Andando con il bue vecchio, che il padrone gli aveva regalato, vince una sfida e ottiene un toro in regalo dal campiere.
In paese Beppe ascolta un bando:
Qualunqui persona si fida lavurari e rifunniri tra un Jornu ‘nna sarma di terra, si pigghia la figghia di lu Re pri mugghieri; s’è maritatu, du’ tummina d’oru; si nun la lavura, lu coddu tagghiatu!.
Qualunque persona è capace di lavorare e arare in un giorno una salma di terra, si piglia la figlia del Re per moglie: se è sposato, due tumuli d’oro; se non la lavora, il collo tagliato.
Il re accondiscende alla sua richiesta di lavorare il terreno, così la mattina seguente va ad ararlo con solerzia. Poiché l’impresa ha esito favorevole, il sovrano mantiene il patto e gli dà per sposa la figlia. Il vecchio bue gli dice:
Quando ti sposerai, devi ammazzarmi e seppellire le mie ossa nella terra che hai lavorato, la mia carne dovrà essere apparecchiata per il banchetto.
Quella terra per incanto divenne un giardino di tanti frutti. Alla moglie, che voleva conoscere il perché dell’accaduto, Beppe confida il segreto.
L’indomani lei lo comunica alle sue sorelle che a loro volta lo dicono ai rispettivi mariti. Da qui la scommessa, il cui patto viene redatto dal notaio: i cognati l’avvisano di sapere come furono fatti gli alberi. Se la loro conoscenza è vera, si prendono tutti gli averi in suo possesso; in caso contrario, Beppe avrebbe acquisito i loro. Perduta la scommessa, egli rimane senza niente e morto di fame. Dopo aver lasciato la reggia, di notte trova rifugio nella casetta di un eremita; all’alba si rimette in cammino in cerca del luogo dove sorge il sole. La domanda che pone agli eremiti incontrati lungo la via è la stessa:
“Mi sapiti diri d’unni spunta lu Suli?” (Mi sapete dire da dove spunta il sole?)
L’ultimo che incontra gli dona un piccolo spillo con questo consiglio:
Lungo il cammino, appena senti gridare un leone deve dirgli: "O compare Leone, vi manda a salutare il vostro compare eremita, e porto con me lo spillo per togliervi la spina del piede e per soprasaluto mi dovete fare parlare con il sole”.
Appena ebbe modo di parlare col Sole, come favore gli chiese la restituzione di tutti i suoi beni. Il finale della novella capovolge a suo favore la desolata situazione grazie a una nuova scommessa con i cognati.
Stavolta Beppe la vince grazie all’intervento del Sole:
E accussì Peppi di mortu di fami vujareddu addivintau Riuzzu (e così Beppe da bovaro morto di fame diventò il piccolo re.)
Per Italo Calvino, autore dell’opera Fiabe italiane (Einaudi, Torino, 1956), il racconto è uno dei maggiori monumenti della narrativa popolare italiana. Il repertorio fiabistico tradizionale è ridotto al mondo dell’esperienza reale del contadino: la questua del lavoro di masseria in masseria, i contratti da capestro, la solidarietà del vecchio animale e la necessità del suo sacrificio, senza una parola di rimpianto o di pietà.
In effetti, molte novelle siciliane cominciano col rappresentare una triste situazione dovuta alla povertà dei mezzi di sostentamento per poi aprire la dolorosa odissea al mondo meraviglioso della fiaba che si fonda sull’intervento inaspettato di ciò che è straordinario. Ma non sempre è così, e vi sono altri racconti in cui è la “sfortuna” a dominare gli eventi.
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