Come rivelazione di simboli è la nota distintiva del racconto “Il vaso del basilico” (“A grasta di lu basilicò”): storia popolare che giunge da lontano, connotata da diverse sceneggiature surrealiste.
Questa novella siciliana dai toni cupi e grotteschi si raccontava fino agli anni Sessanta e, riferita a Giuseppe Pitrè nel paese di Ficarazzi da una figlia di Giuseppa Furia, si può leggere nell’opera "Fiabe novelle e racconti popolari siciliani" (vol.I).
Protagonista femminile è Rosetta (Rusidda). Canta lei dal portico della casa della maestra che si affaccia sul giardino del re; il principe scorgendola, forse per malizia o forse per stuzzicarla, le chiede se conosce quante foglie ci sono nel basilico (-Rusidda trallaralà, Quantu pampini cc’è ‘nta lu basilicu?). Lei, quasi provocandolo, la mattina dopo alla medesima domanda, risponde:
“E tu Re incoronato, quante stelle ci sono nel cielo stellato?” (“E tu Re ‘ncurunatu, quantu stiddi cc’è ‘nta lu stiddatu?”).
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Nell’ampio racconto non c’è interesse per l’ambientazione realistica della vicenda, bensì per la bizzarria della situazione in cui entra in gioco la complicità. Lo sviluppo è fondamentalmente ossessivo e morboso, dove in un primo tempo si coglie la dissoluzione morale. Al principe la domanda di Rosetta appare uno sfregio, giacché egli non ha saputo rispondere: allora comincia a pensare come renderle la pariglia. Va a patteggiare con la maestra (Si va a ‘ppatta con la maistra) e realizza così il suo proposito: stare sotto il letto in cui si corica Rosetta. La stranezza di ciò che accade costituisce il nucleo narrativo, cupamente vendicativo, da cui si sviluppa la trama. Ecco l’accaduto: e venne l’ora che si coricò Rosetta, mentre era a letto, prese il reuccio uno spillone e si mise a pungerla da sotto le tavole (e vinni l’ura ca si curcau Rusidda. mentr’era a lettu, pigghiò lu Riuzzu un spuntuni e misi a pùnciri a Rusidda di suttu li tavuli). Di dispetto in dispetto reciproco (sapientemente narrato l’episodio in cui Rosetta si prende burla di lui con il cavallo dalla cintura d’oro e non meno accattivante quello in cui il principe si traveste da pescivendolo), e di domanda in domanda sui rami del basilico, nonché sulle stelle nel cielo stellato, il colpo di scena non si fa attendere: il principe si ammala di malinconia per non averla più rivista e i medici non sanno come curarlo. Rosetta si traveste da dottore straniero per recarsi al palazzo reale e il Re lo fa salire per il desiderio della guarigione del figlio. C’è sì lo scopo di lei che vuole farsi sposare dal Reuccio e c’è l’ossessione di questi al punto da condurlo alla violenza. Il racconto, centrato sul loro contrasto, si fa penoso e maligno al tempo stesso; non consente illusioni, mentre il grottesco si accentua fino alla congiunzione di orrore e di umorismo. Poiché il Principe vuole sposarla allo scopo di ucciderla, il Re e la Regina per l’amore del figlio, non pensando che i familiari non fossero di stampo reale, vanno a casa del padre, il quale chiede quaranta giorni di tempo mentre Rosetta si fa portare un sacco di farina, una quartara di miele e un vaso di vetro; con tali ingredienti forma una pupa e la inforna. Dopo il matrimonio, dice al reuccio di uscire dalla camera, vergognandosi di spogliarsi in sua presenza. Da qui il suo stratagemma per sottrarsi alla morte, dato che aveva compreso le vere intenzioni del Principe. Prende la pupa, la mette a letto al suo posto e si prende in mano i fili per muoverla. È in sua vece che avviene la decapitazione della pupa; si rompe il vaso che era nel collo, ed esce il miele. Per la rabbia, il Principe lecca la sciabola ed esclama:
- Oh! com’è dolce il sangue di mia moglie; e chi mi trattiene che m’ammazzo! Ora che ho perduto mia moglie tanto dolce? (“Oh! Ch’è duci lu sangu di mè mugghieri! E cui mi teni ca m’ammazzu! Ora ca persi a mè mugghieri accussì duci?”)
Appena lui dice così, esce la Rosetta da sotto il letto e dice:
- Viva sono! Viva sono! E s’abbracciarono. E la pupa di zucchero e miele
Se la mangiarono marito e moglie(“Comu iddu dici accussì, nesci la Rusidda di sutta lu lettu e dici: - Viva sugnu! Viva sugnu! E s’abbrazzaru.
E la pupa di zuccaro e meli
Si la manciaru maritu e mugghieri”)
Il basilico, pianta aromatica che in vaso si scorge ancora sui balconi di Sicilia, ha dunque un variegato simbolismo indicante la coesistenza di forze contrarie. Di positività e di negatività, di luce e di lutto a dirla con l’ossimoro di Gesualdo Bufalino. E il lutto espresso dal basilico era già noto agli antichi romani, tant’è che “Basilisco” era una creatura a forma di serpente capace di uccidere con lo sguardo. In conclusione, la novella, che sarebbe piaciuta al Boccaccio di Lisabetta da Messina o a Guy De Maupassant, interprete della commedia umana, legata com’è alle costanti di tranello e di violenza degli uomini, nonché alla loro follia, esprime più vizi che pregi nel modo più splendidamente grottesco fino alla liberazione dall’odio e al trionfo dell’amore.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il vaso del basilico: riassunto e analisi della novella di Giuseppe Pitrè
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