Non si può eludere la presenza di Giufà che rivive nei racconti popolari, disvelando arguzia e candore: maschera dello stesso uomo, del teatro di un mondo dove l’imbecille non è tale, ma un profittatore che sa cavarsela da scomode situazioni e trarne il proprio utile.
La ricerca di una soluzione è sempre a suo vantaggio fino alla libertà da ogni regola di comportamento. Le azioni sono quelle dello sciocco privo di memoria e consapevolezza, ma da esse puntualmente derivano vantaggi quale per esempio l’impunità. Alla fine ce l’ha sempre vinta grazie alle sue arguzie.
Giufà, che “vive in Sicilia al tempo degli arabi”, è un eterno fanciullo dal candore immaturo. Fa ridere o arrabbiare, ama gironzolare per le strade del paese ed è la disperazione della madre. Poveretta, vedova di un uomo poco meno stupido del figlio, va in cerca di lui e lo trascina con sé per riportarlo in casa. Quella volta aveva ammazzato un cardinale, ma la fece franca per la stupidità associata alla malizia. Di tale intreccio è convinto Leonardo Sciascia che nell’opera Il mare colore del vino ( Einaudi 1973) ha offerto ai lettori la rielaborazione dell’accattivante storia inserita da Giuseppe Pitrè nella raccolta Fiabe novelle e racconti popolari siciliani.
Giufà e il cardinale di Giuseppe Pitré
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Si intitola Giufà e lu Cardinali (Giufà e il cardinale), raccontata a Marsala da Anna Maltese e raccolta dal prof. Salv. Maltese. È opportuno a questo punto riportare sinteticamente la novella, lasciando libero il lettore di confrontarla con il racconto sciasciano, giacché lo stesso scrittore, che agisce consapevolmente, avrebbe voluto che i suoi lettori colgano soprattutto somiglianze e dissonanze dalla favola da lui riscritta.
A Giufà sua madre un giorno, per levarselo d’intorno, disse di andare a caccia e prendere un cardellino:
Vattinni a caccia, va’ pigghia un cardidduzzu.
A lei chiede chi siano i cardellini e la madre in modo approssimativo risponde che può riconoscerli dalla testa rossa: sunnu chiddi chi hannu la testa russa. Cammina, cammina col fucile a tracolla Giufà giunge dentro una chiesa e lì vede passare un Cardinale che ha il cappellino rosso. Scambiandolo per un grosso cardello, gli spara in testa: il povero Cardinale s’aggomitola su se stesso senza fiatare:
Lu poviru Cardinali agghiummuniau senza dire ciu.
Appena arriva a casa col cardellone morto che l’aveva caricato sulle spalle, fa come un diavoletto ritenendo d’aver compiuto un’ottima impresa e chiama la madre per aiutarlo a trasportarlo in casa. Subito la coglie quasi un accidente alla vista del Cardinale morto:
Come hai fatto anima scellerata, a chi ha ammazzato? ora ti mandano alla forca… e muori … e io resto sola amaramente sconsolata!...Come devo fare? … ah che figlio mi è toccato in sorte (Comu facisti! arma scilirata, a cu’ ammazzasti? ora ti mannanu a la furca... e mori … e jueu arrestu sula mala scunsulata!… com’hê fari?… ah chi figghiu chi mi sciurtau!)
A Giufà che vuole giustificarsi, la madre, senza darsi pace e piangendo lacrime di sangue, manda ogni maledizione. Ecco la scaltra trovata di Giufà: buttarlo nel pozzo, coprirlo di pietre e non se ne parla più. Gli viene l’idea di buttarvi un montone morto (un “castru”).
Sopra altre pietre grosse e ciottoli. Nuovi pensieri gli frullano in testa. Si reca dal giudice e gli racconta che nel pozzo del suo cortile c’è un Cardinale morto. Da qui il sopralluogo di sbirri e dello stesso giudice che invita Giufà a scendere nel pozzo con l’aiuto d’una fune. Una volta sceso giù Giufà gli dice:
Signor Giudice, l’acqua pietre diventò, e il morto è sotto le pietre. (Signuri Judici, l’acqua petri diventò, e lu mortu è sutta li petri.)
Dopo un poco aggiunge, gridando, che al Cardinale sono nate le corna. Ridendo il giudice lo invita a togliere le pietre e quando il montone fu tutto scoperchiato, Giufà chiamò di nuovo:
Signore, quello “crastu” è.
L’epilogo è liberatorio: l’astuto e lo sciocco hanno la meglio. Poiché il racconto si svolge più o meno come in Canta-mattino (vol. III, narrato a Casteltermini da Rosa Brusca), vale la pena di darne un accenno.
Giufà e il canta-mattino
Si racconta che una mattina all’alba, Giufà, mentre è ancora coricato, sentendo suonare uno zufolo, chiede alla madre: “Chi è che passa?”. La madre risponde:
È il canta-mattino.
Una mattina si alza Giufà e va ad ammazzarlo, poi a sua madre comunica:
Mamma, ho ammazzato il canta-mattino.
Lei, a quella notizia, lo va a prendere, lo porta dentro e lo getta nel pozzo che era vuoto senza acqua. Quando Giufà l’aveva ammazzato, se ne era accorto accorse un passante che andò a riferire l’accaduto ai suoi familiari. Subito si partono e riferiscono alla Giustizia come Giufà aveva ammazzato il canta-mattino. La madre di Giufà, furba, ammazza un montone e lo getta nel pozzo. La Giustizia, accompagnata dai familiari, va intanto da Giufà per la verifica del morto; i suoi familiari.
Il giudice chiede a Giufà:“Dove portasti il morto?” Risponde così Giufà, perché era scemo:
L’ho gettato nel pozzo.
Legano Giufà con una corda e lo calano nel pozzo. Arrivando in fondo, comincia a cercare; tocca la lana e dice ai figli del morto:
- Aveva lana tuo padre?
- Mio padre non aveva lana.
- Questo ha la lana, non è tuo padre.
Afferra una coda e chiede:
- Vostro padre aveva la coda?
- Nostro padre non aveva coda.
- Allora questo non è vostro padre.
Poi scopre che quel corpo aveva quattro piedi e domanda:
- Quanti piedi aveva vostro padre?
- Nostro padre aveva due piedi.
- Questo ha quattro piedi, per cui non è vostro padre.
Tocca la testa e chiede:
- Vostro padre aveva le corna?
I figli risposero: «Nostro padre non aveva corna.»
- Questo ha le corna, per cui non è vostro padre.
Toccata la coda:
- Ne aveva coda tuo padre?
- Mio padre non aveva coda.-
- Allora non è tuo padre.
Risponde il giudice: “Giufà o con le corna o con la lana lo devi salire”.
Tirano Giufà con il montone sulle spalle, la Giustizia vede che era un vero “crastu”, e lascia libero Giufà.
Rispunni lu Judici: – «Giufà, o cu li corna o cu la lana acchiànalu.» Tiranu a Giufà cu lu crastu ’n cuoddu, la Ghiustizia vitti ca era veru cràstu, e lassà’ liberu a Giufà.
L’esito narrativo merita un apprezzamento poiché nei vivacissimi dialoghi risuona un’affabulazione avvincente. Con Gesualdo Bufalino in uno dei racconti dell’opera L’uomo invaso e altre invenzioni (Milano, Bompiani, 1986), Giufà, tipico emblema dell’oralità contadina, muore, e per ironia della sorte viene ucciso da una “macchina mobile” al tempo del fenomeno dell’industrialismo che, in Sicilia, si era incarnato nel dinamismo della “targa Florio”.
Finisce così un’epoca, finisce la favola dello sciocco, dello stolto e del furbo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Giufà: riassunto e analisi di due novelle di Giuseppe Pitrè
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