La prima storica Terza Pagina, apparsa sul «Giornale d’Italia» l’11 dicembre 1901 (Wikipedia)
La terza pagina rappresenta una delle rivoluzioni più significative del giornalismo culturale italiano del Novecento. Nato come spazio di libero dialogo tra la cronaca culturale e la prosa d’arte, questo formato ha permesso agli intellettuali di assumere un ruolo centrale nella vita culturale del Paese, offrendo loro una piattaforma per riflettere su temi artistici, letterari e sociali e dando loro la libertà di esprimersi con uno stile più letterario rispetto alla cronaca tradizionale.
Attraverso le voci di autori come Svevo, Pirandello, Cecchi, Gadda, Moravia, Pasolini e Calvino, il giornalismo culturale ha sviluppato un’identità unica, in bilico tra cronaca e riflessione, attualità e dimensione estetica, che ha contribuito a sfumare i confini tra letteratura e giornalismo.
Ripercorriamo insieme la nascita e l’evoluzione della terza pagina, per poi soffermarci sugli scrittori del primo e del secondo ’900 che si sono prestati al giornalismo e alla cosiddetta “prosa d’arte”.
Breve storia della terza pagina
In un secolo come il ’900 che ha visto una decisiva accelerazione della comunicazione come mai prima nella storia, è naturale che essa cambi alla velocità della luce. Così come cambia la figura di chi si occupa di comunicazione. Ed è proprio nel 1901, allo scoccare del nuovo secolo, che nasce la terza pagina, sul Giornale d’Italia. Allora era diretto da Alberto Bergamini, il quale ebbe una geniale intuizione: quella di dedicare la pagina 3 del giornale ad una prima teatrale, una decisione anticonvenzionale e inconsueta rispetto alla tradizionale gerarchia delle notizie: scegliere di dedicare la terza pagina alla Francesca da Rimini, un’opera di Gabriele D’Annunzio e portata sul palco da Eleonora Duse, è stata una scelta significativa che ha rivoluzionato la prospettiva del giornalismo culturale perché, per la prima volta, una notizia di cultura veniva giudicata estremamente rilevante per il pubblico dei giornali dell’inizio del ’900.
Quello che colpisce è che la dimensione sintattico-grafica della terza pagina di quel lontano 1901 è identica a quella che vediamo ancora oggi, con la sua struttura tripartita, formata da:
- taglio alto, dove c’è la cronaca culturale;
- taglio basso, dove nei giornali francesi e inglesi veniva ospitato il feuilleton, cioè il romanzo a puntate o d’appendice, maturando una serialità ante litteram;
- l’elzeviro, il luogo privilegiato in cui gli intellettuali si prendevano la libertà stilistica di raccontare pezzi di mondo senza la pressione del linguaggio giornalistico. Nasceva, così, lo spazio della cosiddetta prosa d’arte, che soprattutto negli anni ’30 e ’40 è una prosa esteticamente elaborata, ricca, forbita, digressiva e fine a se stessa. È lo spazio del giornale dove viene ospitato lo scrittore, lasciandogli la libertà dello scrittore, ed è lo spazio dove, per decenni, hanno scritto autori come Svevo, Pirandello, Calvino, Moravia e Pasolini.
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Come scrive anche Carlo Serafini in Parola di scrittore (Bulzoni editore, 2010), testo che affronta il tema dell’ibridazione tra giornalismo e letteratura nel Novecento:
“calcolando il rapido sviluppo del giornalismo dopo l’Unità e l’affermazione in quegl’anni dell’importanza dei mezzi di comunicazione per formare l’opinione e il consenso dei vari ceti sociali, il tutto unito alla spinta economica data dall’unificazione della penisola, si può osservare come il terreno fosse pronto per una "nuova" funzione degli intellettuali nella società.”
La terza pagina di Bergamini nasce, quindi, come risultato di un processo per cui l’intellettuale
“comincia a far leva sulle possibilità di sfruttamento economico delle proprie capacità intellettuali, giunge a proporre la cultura come professione”.
Qui entra in gioco una dimensione nuova: quella dello scrittore come giornalista, che apporta un valore aggiunto al giornale, poiché inserisce, nella terza pagina, il suo personale sguardo sul mondo, una vetrina di ciò che si produce in termini di cultura e letteratura, ma anche - e soprattutto - lo spazio di un dibattito culturale senza il quale non riusciremmo ad immaginare la storia della cultura.
È in questo momento che il confine tra giornalismo e letteratura, già di per sé labile, comincia a sfumarsi.
Esempi di scrittori prestati al giornalismo
Scrittori giornalisti del primo ’900: Svevo, Pirandello, Cecchi, Gadda e Moravia
L’espressione che può riassumere quello che Italo Svevo interpreta rispetto alla pratica di scrivere per i giornali è la necessità di borghesizzazione: è evidente che, a meno che non si abbiano le spalle coperte da una famiglia abbiente e dalla sicurezza di censo, c’è la necessità di venire a patti, concretamente, con l’aspetto economico. Nelle biografie di Svevo troviamo questa sensazione di essere quasi malato, di essere affetto da una “malattia della vocazione”, per cui la letteratura poteva riscattarlo soltanto diventando monetizzabile e producendo un reddito. È importante la dimensione impura dell’arte moderna, cioè l’idea che non esista la possibilità “dell’arte per l’arte”, di un’arte totalizzante, integrale, perché quell’arte deve, nel momento in cui si commercializza, sporcarsi, si rende impura anche solo nel fatto che lo scrittore o il poeta non possono vivere solo di scrittura letteraria e di scrittura poetica.
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Luigi Pirandello è uno scrittore avvertito sui cambiamenti dell’industria culturale, ad esempio guarda al cinema, sebbene con un’iniziale diffidenza, come un orizzonte possibile di evoluzione dell’immaginario. L’iniziale scetticismo nei confronti dell’industria cinematografica è paragonabile a quello che nutre nei confronti di quella giornalistica. È presente, nell’autore, una polarizzazione tra diffidenza e visibilità: la diffidenza che nasce nell’artista rispetto all’evoluzione di una paesaggio che credeva di dominare, quindi è inizialmente recalcitrante; successivamente, per ragioni di necessità economica, si accosta a quell’orizzonte, cogliendone il vantaggio in termini di visibilità e di pubblico.
Pirandello, inoltre, subisce l’influenza positiva del lavoro giornalistico sulla scrittura: dopo un’iniziale sensazione che il lavoro giornalistico porti via tempo che invece potrebbe essere dedicato ad altri progetto, c’è l’idea che la scrittura giornalistica alleni ad una scrittura più immediata, fulminea, quasi istantanea. È innegabile che anche Pirandello risenta della spinta ad occuparsi di attualità letteraria e culturale, ma anche di scrivere per l’elzeviro, che consente una maggiore libertà stilistica.
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Parlando di elzeviro, celebre è quello di Emilio Cecchi, definito
“levigato, di qualità, e di argomenti altrimenti difficilmente accostabili, la curiosità per ogni aspetto della vita umana ed animale, per le diverse arti, per il dettaglio, che finisce sotto l’occhiale da presbite del critico e ne rivela l’unicità nascosta della quotidianità. [...] la disciplina giornalistica è determinante a forgiare l’altro elemento della sua prosa: lo stile, indagato a lungo e con sapienza da varie angolazioni, si riconosce unanimemente e accetta uno stile magistrale costruito su una sintassi paratattica, un lessico ricco e duttile, con connotazioni, con una disponibilità infinita di toni e tinte su di un registro vario che stempera l’audito con il colloquiale.”
C’è quindi, in lui, una vera e propria opera di rimodellamento della prosa in funzione dello spazio giornalistico che la ospita: con questo spazio di libertà dato dall’elzeviro rispetto al condizionamento dell’attualità abbiamo un ulteriore elemento nella storia del giornalismo culturale novecentesco, ovvero la dialettica tra attualità e libertà di scrittura.
La domanda su quando uno scrittore, lavorando sui giornali, può essere a riparo dall’attualità, è una domanda posta anche da Carlo Emilio Gadda, che si preoccupa del fatto che il livello letterario del testo, nel momento in cui è assoggettato all’attualità, sia contaminato dalla sua lingua, dalla “contaminazione del contingente”, infiltrando la prosa e rendendo impossibile attingere alla propria identità stilistica.
Uno scrittore che ha adottato, al contrario, il realismo come cifra stilistica distintiva, sia come autore di romanzi sia nelle sue collaborazioni con le testate giornalistiche, è Alberto Moravia. In lui si riconosce una vera e propria continuità autoriale tra la sua produzione letteraria e il suo lavoro giornalistico; non a caso, spesso la sua narrativa di esprime in forma breve, come quella destinata alla pubblicazione sui giornali.
Moravia distingue, nell’Intervista sullo scrittore scomodo, tra la figura dell’intellettuale da quella dell’artista, ponendo l’accento su come “un intellettuale non sia mai, o di rado un artista”. La contrapposizione viene operata
“in funzione del diverso rapporto che i due intrattengono con la società, essendo l’artista fondamentalmente antisociale. Per Moravia all’arte non spetta alcun ruolo sociale, perché essa esaurisce la sua presenza in società nel non essere utile a nessuno. [...] Al contrario l’intellettuale è un dispensatore di pensieri, capace di organizzare la realtà.”
Altri autori fondamentali del panorama letterario italiano hanno scritto, all’inizio del ’900, per i giornali, arricchendoli con la propria visione del mondo e la loro cifra stilistica. Esempi celebri sono lo stesso D’Annunzio, che collaborò con diverse testate come scrittore e cronista, pubblicando poesie, articoli e racconti, e utilizzando la stampa per accrescere la sua fama e influenzare l’opinione pubblica; oppure Eugenio Montale, il quale collaborò soprattutto con il Corriere della Sera, principalmente come critico letterario, unendo, nelle sue recensioni, precisione analitica e sensibilità poetica, occupandosi non solo di letteratura, ma anche di riflessioni sulla società e sulla condizione umana, e sfruttando la stampa come mezzo per portare avanti il suo pensiero critico.
Scrittori giornalisti del Secondo ’900: Pasolini e Calvino
Pier Paolo Pasolini è un caso particolarmente significativo del rapporto tra scrittori e giornali perché lui rappresenta il simbolo di un intellettuale che arriva ai giornali non da giornalista, poiché la sua vocazione è una vocazione poetica. Muove i primi passi nel mondo letterario come poeta, addirittura in lingua friulana, ma poi progressivamente di avvicina alle riviste, la cui esperienza più significativa è sicuramente quella di Officina, il cui sottotitolo recita “fascicolo bimestrale di poesia”, rivista che andrà avanti dal 1954 al 1958.
La sua notorietà è immediata, e lo spazio di lavoro per i giornali diventa significativo, senza però mai diventare un giornalista a tutti gli effetti: lui presta ai giornali delle riflessioni, che nascono inizialmente dai suoi studi letterari e poi progressivamente si spostano su un orizzonte di discorso pubblico e politico.
In Pasolini c’è un costante tentativo di rinnovare il rapporto con il linguaggio, scavalcandone i limiti, quasi a voler mettere alla prova la sua efficacia, con uno spostamento continuo rispetto all’orizzonte d’attesa, rendendolo uno degli scrittori più duttili e sperimentali del secondo ’900.
Il suo è un contributo emotivo, viscerale, contraddittorio, in netta contrapposizione al modo di interpretare la figura dell’intellettuale che invece viene operato da Italo Calvino. Tra i due c’è grande rispetto accademico, ma anche la coscienza di una distanza irriducibile: Calvino, infatti, era più cerebrale, lucida, tendente ad una geometria pulita, aerea, caratterizzato da una sorta di pathos della distanza, come se sparisse dietro le sue opere, che agisce in lui producendo un distacco dalla realtà, come di chi guarda da lontano, con un telescopio. E l’immagine non è fuori asse, se consideriamo il fatto che il suo ultimo romanzo, Palomar - che nasce sul Corriere della Sera come una sorta di feuilleton moderno - prenda il nome proprio dall’osservatorio astronomico in California.
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Nonostante quest’ultima sia una critica mossa proprio da Pasolini, è Calvino stesso ad ammettere, nella sua opera Se una notte d’inverno un viaggiatore:
“come scriverei bene se non ci fossi, se tra il foglio bianco e il ribollire delle parole e delle storie che prendono forma e svaniscono senza che nessuno le scriva non si mettesse di mezzo quello scomodo diaframma che è la mia persona. Lo stile, il gusto, la filosofia personale, la soggettività, la formazione culturale, l’esperienza vissuta, la psicologia, il talento, i trucchi del mestiere, tutti gli elementi che fanno sì che ciò che scrivo sia riconoscibile come mio.”
Mentre Pasolini sente un richiamo imperativo, per quanto cinico rispetto ai mezzi di comunicazione, di contraddire il suo distacco e il suo disimpegno (e di arrivare all’effetto della provocazione come effetto determinante di ogni scrittura), Calvino sta al segno opposto: è uno scrittore che collabora molto presto ai giornali e alle riviste, come succede per moltissimi autori del ‘900, che hanno questo richiamo dell’attualità. Il lavoro giornalistico è vissuto da Calvino, nei primordi della sua attività, come una naturale estensione del suo lavoro di scrittore: i suoi racconti circolano sulle riviste, comincia a collaborare con alcune testate - in particolare Il Corriere della Sera e Repubblica - dichiarando apertamente una difficoltà di reazione immediata agli eventi, tipica invece di Pasolini. Lo sbilanciamento evidente è, invece, sul coté letterario: Calvino scrive molto di libri, delle opere che lo interessando, dei testi rivelatori di alcune tendenze dell’editoria, e c’è anche molta autoriflessione sulla propria scrittura, e su quello che dovrebbe fare - ed essere - la letteratura.
Il secondo ’900 è però costellato da una volta di nomi che meritano una menzione d’onore per il ruolo che hanno giocato nel panorama del giornalismo italiano, come Indro Montanelli e Oriana Fallaci, che interpretano il giornalismo come un narrare che può attingere agli strumenti della letteratura senza scavalcare l’ufficio del giornalismo stesso: lo stile della loro prosa d’arte entra a tutti gli effetti dentro quella della prosa giornalistica, rendendo il confine tra i due sempre più sottile, arrivando quasi ad una sovrapposizione strutturale tra le possibilità del giornalismo e quelle della letteratura. In particolare, il valore aggiunto di Fallaci risiede nell’essere uno spazio di approfondimento giocato molto dal punto di vista emotivo: come scrittrice giornalista, ha messo in scena la componente dell’emotività anche nei suoi reportage, componente tipica, invece, della scrittura letteraria.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Storia della terza pagina e scrittori giornalisti: casi celebri del ’900 italiano
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