
La poesia di Daniela Attanasio non è una poesia semplice. È una poesia con cui è difficile fare i conti, ma bisogna farli a tutti i costi se si vuole aggiungere un tassello importante al mosaico lirico nostrano, se si vuole avere una panoramica completa della poesia italiana contemporanea.
È bene chiarire subito una cosa: nonostante la sua amicizia con Amelia Rosselli, nella poesia dell’Attanasio non c’è traccia di epigonismo né di manierismo, per quanto gli echi della Rosselli siano percepibili in molti autori e in molte autrici ormai da decenni. La Rosselli fa indubbiamente parte della tradizione, del canone, ma l’Attanasio ha un incedere perfettamente autonomo e indipendente; ha trovato una strada tutta sua, apprezzata da chi ha un minimo di sensibilità artistica. Dirò di più: bisogna leggerla per capire appieno gli influssi sulle poetesse e sui poeti più giovani, perché ormai anche l’Attanasio fa parte della tradizione e ha fatto scuola, per quanto appartata e mai presenzialista. Non solo: la poetessa è stata ormai riconosciuta da critici e lettori come una delle migliori voci della sua generazione, ed è stata persino antologizzata nella bianca Einaudi.
Secondo l’etologo Bryan, la cultura coincide col linguaggio, e per le scienze umane il linguaggio poetico è una facoltà mentale, una competenza verbale di alta qualità. Partendo da questi assunti ho letto Vivi al mondo, l’ultima raccolta dell’autrice, uscita nel 2023 per Vallecchi editore, fortemente voluto dall’editor Isabella Leardini. All’inizio non è stato facile trovare le parole; non riuscivo a chiudere i pensieri su questa bella raccolta. Vorrei sgombrare il campo da ogni equivoco: non tratterò della forma di questa poesia, perché, come scriveva Dacia Maraini:
Una donna che scrive poesie e sa di / essere donna, non può che tenersi attaccata / stretta ai contenuti perché la sofisticazione / delle forme è una cosa che riguarda il potere / e il potere che ha la donna è sempre un / non-potere, un’eredità scottante e mai del tutto sua.
Quindi non mi muoverò sul discrimine tra contenutismo e formalismo, tra femminile e maschile, né farò un’analisi meramente letteraria. Posso solo accennare che il verso lungo non deve mai trarre in inganno: si tratta di poesia di ampio respiro, caratterizzata da musicalità, ritmo, appropriatezza stilistica e grande precisione lessicale. Mi muoverò perciò su un piano prettamente psicologico, esistenziale, filosofico e non identitario (tralasciando le questioni di genere) perché spero di fornire una chiave interpretativa inedita.
Quella dell’Attanasio è una poesia autentica, che ci lascia sospesi, perfino esterrefatti: il suo stupore e la sua meraviglia per ciò che ha intorno diventano nostri. È una sospensione continua, creata dal pathos, dalla ricerca incessante, dell’attesa di qualcosa che verrà. Pensiamo a questi versi:
oggi i piccioni sembrano falchi / il loro volo è insolitamente fermo nella sospensione / in realtà non vedo bene / forse la vista è accecata dall’insonnia / oppure le lenti sbagliate impediscono di capire cosa sia / quella filigrana di nuvole che si muove nel cielo in chiaroscuro / come fosse uno sbuffo di catrame / dovrei cercare senso nelle rassomiglianze.
Qui la sospensione dei piccioni diventa quella della poetessa: una vera e propria metafora dell’esistenza di tutti. La poesia origina spesso da una percezione che, a scanso di equivoci, è la prima forma di conoscenza, tant’è che gli psicologi la definiscono gnosia, contrariamente ai disturbi percettivi classificati invece come agnosie. Per la poesia dell’Attanasio potremmo parlare talvolta di “impercezioni”. Per “impercezione” bisogna intendere un istante di assenza della coscienza o di sospensione. È la messa tra parentesi per qualche attimo delle categorie percettive. Potremmo definire l’impercezione come un punto cieco della coscienza e/o della percezione, che rivela l’ineffabile. Nell’impercezione il soggetto si trova in una zona di incertezza, nel limbo del vedo/non vedo. Ci si accorge subito che l’(im)percezione, qui espressa in modo mirabile, è solo un punto di partenza e non d’arrivo.
Analizziamo da un punto di vista psicologico cosa accade spesso nella poesia dell’Attanasio: l’impercezione non è data dal minimo percepito, cioè da una sensazione appena sufficiente a raggiungere l’intensità minima dell’eccitazione nervosa, né da una “sfarfallamento”, cioè da ciò che noi percepiamo continuo e invece è solo intermittente, né da noi percepito simultaneo, mentre invece non lo è, come ad esempio quando ci tocchiamo il naso col dito. A livello di psicologia generale, la poetessa ci descrive un campo percettivo ben strutturato inizialmente, che già di per sé è un’entità complessa, poiché, come sostenevano i gestaltisti, ogni campo percettivo è un campo di forze, proprio come quello elettromagnetico, ed è più della somma delle parti che lo compongono. Ma l’autrice talvolta si spinge oltre: il campo percettivo perde struttura e pregnanza, qualcosa dello sfondo diventa figura protagonista della visione centrale, tutto si capovolge per un attimo. La vaghezza di questa poesia è data dall’(im)percezione e non dall’indeterminatezza semantica, anzi a livello verbale si può rintracciare solo esattezza. Per l’Attanasio la descrizione di suoni, cromatismi, natura non è mai fine a sé stessa, non è mai ornamentale, né un modo per affermare il proprio ego, per dimostrare la propria bravura. Applicare ai suoi versi questa chiave di lettura sarebbe troppo riduttivo, anzi fuorviante. La poetessa non si limita a questo compitino da principianti, ma va oltre, molto oltre; si pone sul crinale tra indefinito e infinito leopardiano, sullo iato tra tempo e durata bergsoniana (ci sono delle presenze del passato che vengono rievocate oppure è il passato stesso che diventa presente psicologico), ma il riconoscimento dei limiti percettivi è un tramite per interrogarsi sulle cose e sul mondo, perché, come dichiara la poetessa Maria Borio, la poesia, quella vera, è prima di tutto “interrogazione sulle cose”.
Aggiungerei che la poesia, quella vera, deve far interrogare sulle cose il lettore, e l’autrice, per quel che mi riguarda, ci riesce benissimo. Di solito in queste liriche c’è un’alternanza tra interrogazione e sospensione, che si richiamano vicendevolmente, si rimandano tra di loro, tenute insieme da un costante fil rouge, ovvero dalla consapevolezza esistenziale, dal vissuto che si fa esperienza e si tramuta in saggezza. Molti aspiranti poeti si fermano grossolanamente alla percezione, senza descriverne i limiti. La poetessa raggiunge invece la visione e va oltre, la supera. Le immagini diventano simboli di qualcosa di più profondo. A essere più precisi il circolo ermeneutico di questa poesia è dato dalle seguenti fasi: interrogazione, osservazione, contemplazione, sospensione, di nuovo interrogazione. Quella dell’Attanasio è una sospensione esistenziale e metafisica alla continua ricerca di un senso profondo, invece di un susseguirsi caotico di istanti, intervallati dai classici tre puntini, come fanno alcuni, scimmiottando la prosa immaginifica di Céline. La sospensione qui non è data dal fluire discontinuo degli attimi ma da quelli che Popper chiama gli “interrogativi ultimi” (Chi siamo? Dove andiamo? Cosa c’è dopo la morte?).
La sospensione è anche data dal dubbio conoscitivo e al contempo dall’ansia di conoscenza ultima, dalla ricerca dell’essenza, senza mai cercare leggi generali e risposte definitive, che, è bene intendersi, non appartengono e non possono appartenere a nessun poeta degno di nota. L’unica certezza dell’Attanasio è che non ci sono certezze, esistenzialmente parlando, è che l’unica verità sotto questo punto di vista è che non ci sono verità.
All’improvviso il rumore della pioggia impose il silenzio
e da quella casa uscirono le nostre voci simili al
richiamo degli uccelli quando volano sulle
teste autunnali dei giardini verso paesi più caldi
verso nuove frontiere –
pensai che quell’allontanarsi di uccelli e voci
fosse la ceralacca apposta sulle carte dei nostri viaggi
sulla contiguità fra nord e sud fra cielo e terra
o forse soltanto un modo di essere vivi al mondo.
La poetessa razionalizza l’inconscio; spesso i suoi versi sono un’opera di disvelamento dell’inconscio. L’Attanasio è anche maestra in questo senso, cioè nel descrivere il flusso subcosciente della vita, senza mai farsi travolgere dai fatti, come aveva notato Franco Loi. L’autrice riporta alla luce della coscienza la vita che scorre sottotraccia, oserei dire come un fiume carsico. Compie la stessa operazione di riportare ciò che talvolta sta sotto la soglia di coscienza, come fa Salinger in alcuni brani de Il giovane Holden. Però l’Attanasio, a differenza di Salinger, seleziona con cura il suo inconscio (non si chiede mai banalmente come fa lo scrittore americano dove vanno le anitre quando il laghetto del parco è ghiacciato), che è sempre sorvegliato da una razionalità ragionevole e molto accorta, perché l’autrice sa bene che tra conscio e inconscio bisogna trovare un punto d’incontro e che la portata di quest’ultimo ha perso ormai la carica eversiva e rivoluzionaria che fu dei surrealisti e dei futuristi.
Allo stesso tempo si può notare la sua “spontaneità”, che lascia a tratti correre libere le parole, ma che non è mai ricerca calcolata dell’autonomia del significante perché vigilata sempre da una grande “accuratezza”. Il flusso delle parole quindi aderisce al fluire della vita e se ci sono delle intermittenze sono quelle del cuore, del passato che riemerge inaspettatamente. La sua è poesia della vita e non sulla vita, delle cose e non degli oggetti (per fare vera poesia gli oggetti devono diventare cose, devono far veramente parte del nostro vissuto e del nostro tempo, come scrive acutamente il critico Giorgio Linguaglossa), della relazione tra io e mondo, senza sbilanciamenti, anzi spesso utilizzando i contrappesi della ragione. Sempre a proposito di una poesia delle cose, la sua oggettualità è spontanea, non è mai studiata a tavolino, non è mai tentativo di oggettività, perché è sempre permeata dall’interiorità, e tutto ciò evita la freddezza intellettualistica e ricercata in cui taluni cadono.
Per la poetessa le cose della vita sono quelle naturali e il senso delle cose va ricercato nella natura, ricerca che compie con maestria, ascolto, pazienza, metodo, talento, contemplando il Creato, sentendosi un’infinitesima parte del cosmo, senza mai indulgere nel bozzetto bucolico, perché sa volare più alto. La sua è anche poesia urbana, pur nella consapevolezza che la città non è più polis, che è luogo di massificazione e non di aggregazione, quindi fatta da non-luoghi, dal punto di vista sociologico e antropologico, che ci fanno sentire smarriti e inadeguati. Cito testualmente:
In cielo una striscia amaranto cade dietro il palazzo umbertino
è un’immagine triste come le lenzuola singole del senza amore
tornare a vivere alla luce dell’alba sarebbe un salto all’indietro
sarebbe tornare ai giorni dei nostri anni
un miracolo terrestre tra chi è ancora qui e chi è andato via
un modo di pensare la vita come una stagione mancata.
La contemplazione delle sagome, scrutate in città, porta, grazie a un’ironia dal sottofondo tragico, solo a delle agnizioni rovesciate (se pensiamo alle muse di Montale, veramente epifaniche per il poeta ligure). La città, a mio avviso, in questa raccolta, diventa simbolo di inautenticità esistenziale, come ad esempio in questi versi:
Ecco ora un uomo curato nella persona –
giacca cravatta calzoni scuri e ai piedi
grandi scarpe da ginnastica bianche.
Sia ben chiaro: la poesia di Daniela Attanasio si mantiene sempre ben salda e ancorata alla realtà (nonostante qualche raro sfaldamento e slittamento voluto, dato che sa bene che la razionalità umana è limitata e bisogna anche aprirsi all’assurdo e al mistero; insomma, “la spinta della parola conta più della ragione”) perché, nonostante ci riveli l’incertezza e la precarietà esistenziale, è sia simbolo che rappresentazione e non sintomo: sfido a trovare tracce di psicopatologia nella sua raccolta (non è depressione la sua, ma presa di coscienza del male di vivere e dell’anello che non tiene), tenuta insieme da un equilibrio interiore mai precario, senza paturnie, autocommiserazione, sfoghi. Questa poesia bellissima ad esempio tratta della solitudine senza sentimentalismo né disperazione, ma oggettivando questo stato d’animo con immagini significative e nitide:
Anche tu compatisci gli infelici dell’amore anche tu
ti compatisci per il freddo che scorre con il sangue
ma non c’è più passione nei tuoi giorni scrivendo ti
consegni a lingue diverse e hai l’illusione di bastarti –
guarda come batte il sole stamattina su questa corteccia
che d’inverno gela c’è sapore di mandorla nell’aria
una complessa armonia di colori corpi nodosi o sciolti
alla corsa ai gesti eleganti dell’arte marziale guarda quel
piccione gonfio d’amore come gira vorticando intorno
alla femmina come si allarga lo spazio se chiudi gli occhi –
suoni richiami scorrono in forma di canzone popolare
ma sei lontana dall’età dell’innocenza dove un gesto
o una voce parlavano di desiderio ora è il Tempo Sovrano
a decidere per te dovrai bastarti fino all’ultima ora della vita.
Ma il suo dolore, a differenza della grande Amelia Rosselli, trascende il trauma, senza eluderlo o rimuoverlo. Intendiamoci bene: non tutto il trauma è poesia e non tutta la poesia è trauma. In questo caso la scrittura lo affronta, lo fronteggia, inizia un corpo a corpo incessante con il dolore dell’animo, si sporge sulla soglia tra vita e morte (che è il trauma ultimo per noi tutti). Infine questa poesia non cerca solo il sostrato noumenico, perché è soprattutto affermazione di vita, nonostante l’impasto di dolore esistenziale e finitezza che la contrassegna, e il titolo in questo senso è davvero emblematico. Riporto fedelmente questi versi memorabili: “Oggi vorrei che tu rintracciassi le mie orme / per custodire la parte giusta del cuore / dove il sangue è rosso e la morte dorme”. E se la poesia fosse un modo per addormentare la morte, fermando ed eternando degli attimi? E se il canto dei poeti fosse un modo per battere gli inferi? Ma cos’è veramente la poesia ce lo scrive la stessa autrice:
Non morirà la creazione umana
la poesia sarà ancora e per sempre un
diffusore di fatti quotidiani dove la spinta della parola
conta più della ragione dove le pulsazioni del cuore
sono colpi di martello quando il fiato si fa corto per
la paura di non riuscire a dire il verso esatto che vada incontro all’amore –
amore per la terra per il mare per la natura astratta del cielo
amore che riscalda il corpo nella neve –
amore come pane
come le nostre parole lasciate a lievitare
in un’anta del corpo per un’altra stagione
un’altra sponda di vita dove sostare.

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