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Recensioni di libri

Sugar Money di Jane Harris

Neri Pozza, 2017 - Questa approfondita ricostruzione storica riconferma il talento di Jane Harris nell’affrontare con grande sensibilità un soggetto brutale, crudele e, nello stesso tempo insidioso, come la schiavitù.

Lidia Gualdoni
Lidia Gualdoni Pubblicato il 30-10-2017

7

Sugar Money

Sugar Money

  • Autore: Jane Harris
  • Genere: Romanzi e saggi storici
  • Categoria: Narrativa Straniera
  • Casa editrice: Neri Pozza
  • Anno di pubblicazione: 2017

Dopo il debutto letterario, avvenuto con “Le osservazioni” (Neri Pozza, 2006), che ci aveva fatto conoscere un’originale eroina vittoriana, e dopo il secondo romanzo, “I Gillespie” (Neri Pozza, 2012), con un altro indimenticabile personaggio femminile, la scrittrice irlandese Jane Harris torna nelle librerie con il nuovo, atteso, romanzo.
È prevista infatti per oggi, 30 ottobre 2017, l’uscita di “Sugar Money” – pubblicato in Italia sempre da Neri Pozza, con traduzione di Massimo Ortelio –, ispirato ad una vicenda realmente accaduta, raccontata, questa volta, da una voce maschile, diversi anni dopo, e ritrovata in un manoscritto originale consegnato nell’ottobre del 1812

“da un mezzosangue di età matura e dai modi assai garbati”.

Jane Harris ci porta nel 1765, a Saint-Pierre della Martinica, nelle Antille Occidentali, dove vivono Emile e Lucien, due giovani fratelli schiavi mulatti: la madre apparteneva ai Mandingo, mentre il padre era un frate, padre Damien Pillon, soprannominato “il Mortaio” per la sua tremenda crudeltà, assai più interessato al denaro che alla cura dei malati.
Nati a Grenada, i due avevano seguito Les Frères de la Charité de Saint-Jean-de-Dieu, una congregazione di monaci mendicanti che gestiscono da quasi un secolo l’ospedale, in Martinica, dopo che le autorità francesi, prima, e le truppe britanniche, poi, avevano preso il controllo dell’ospedale che era stato costruito sulla collina che sovrasta la capitale, Port Royal.
Per finanziare le loro opere caritative, i monaci sfruttano il lavoro degli schiavi nelle piantagioni di canna da zucchero, ma Lucien, che ha tredici o quattordici anni e considera il fratello un eroe, si prende cura del bestiame dei frati – compito che preferisce di gran lunga, rispetto al lavoro nella piantagione.
Emile, invece, dopo essere stato per qualche tempo a servizio dei frati e aver coltivato la loro terra – “aveva una tale abilità con le piante da far crescere la manioca sulle rocce” –, diventato apatico, ombroso e testardo, era stato venduto a certi monaci domenicani dall’altra parte dell’isola:

“Quanto a mio fratello, dicevano che avesse tanto acume da poter presiedere un parlamento. Aveva il doppio dei miei anni, ma io mi consideravo uomo quanto lui, benché allora non fossi altrettanto bravo con il caiano e il fungo che fa marcire le mele. […] Era più magro dell’ultima volta che lo avevo visto, circa un anno prima, quando i nuovi padroni l’avevano mandato all’ospedale con del vino per i frati. Era tutto muscoli sotto la veste, neanche un filo di grasso: uno scultore avrebbe potuto usarlo per riprodurre la figura snella di una giovane divinità”.

Vivendo con i frati, i due hanno incontrato individui di ogni risma, una vasta gamma di tipi umani: creature incapaci di far del male ad una mosca, come prepotenti senza cuore. Fra questi, padre Cléophas – non “il peggiore dei tiranni”, ma comunque “sfuggente come un verme in un barile di anguille” – li incarica di una missione rischiosa e quasi impossibile: tornare a Grenada e riportare in Martinica una quarantina di schiavi, di cui rivendica la proprietà:

“Dobbiamo riprenderci i nostri schiavi, anche per rimpiazzare quelli che la febbre ci ha portato via. C’è ancora tanta terra da disboscare e mettere a coltura su quest’isola, per non parlare della distilleria che intendiamo avviare”.

In verità, padre Cléophas era già stato a Grenada, non molto tempo prima, cercando invano di blandire le autorità perché gli inglesi gli restituissero gli schiavi, ma era stato rispedito indietro a mani vuote. Ora, nonostante tutte le obiezioni più che sensate di Emile, il frate è convinto che siano gli unici ad avere qualche possibilità di portare a termine l’impresa con successo: i luoghi sono loro familiari, i negri li conoscono e si fidano di loro; infine, Lucien, oltre al francese e al creolo, la lingua madre che discendeva da quella degli avi e si mescolava al francese, parla perfettamente l’inglese.
Dopo aver consegnato ai fratelli una procura ad agire per conto del loro ordine, vergata da un notaio, alla presenza del governatore francese con “l’approvazione preventiva del governatore inglese di Grenada”, Padre Cléophas ammette che che l’unico problema è costituito dalla contestazione del diritto di proprietà sugli schiavi del medico inglese dell’ospedale di Grenada, il signor Bryant, e del nuovo soprintendente, il signor Bell. Per questo motivo, sarà necessario agire in fretta e di nascosto, per convincere i poveretti della piantagione e dell’ospedale – fra i quali c’è anche Céleste, l’ex innamorata di Emile – a fuggire di notte: una barca li aspetterà lungo la costa la vigilia di Natale, quando i Beké – gli inglesi – saranno storditi dal rum.
Consapevole dei rischi che dovrà correre, Emile non può fare altro che rassegnarsi a compiere il proprio dovere:

“Padre, io debbo fare ciò che mi chiedete”.

Una volta arrivati a Grenada, i due giovani si rendono conto non solo che il piano si basa su una serie di menzogne, ma anche che, rispetto alle loro condizioni di vita in Martinica, pur filtrate dalla gioia del vivere e dall’ironia del giovane protagonista – basti pensare alla descrizione di padre Cléophas o del Capitano Bianco –, sono di gran lunga più sopportabili rispetto a quelle degli amici che hanno lasciato tempo prima.
Certo, sempre di schiavitù si tratta, ma la descrizione degli orrori fisici e psicologici, delle violenze, delle torture subite dagli schiavi e che permeano ogni aspetto della loro vita, colpiscono duramente Lucien e lo condizionano nelle scelte che sarà costretto a fare durante la sua disavventura sull’isola, permettendogli di diventare “l’uomo” che, con certa supponenza, era convinto di essere fin dall’inizio della vicenda.

Basato su un’approfondita e completa ricostruzione storica, su una scrittura coerente, ricca di particolari e, soprattutto, di suspense per il destino dei diversi personaggi, tutti autentici e perfettamente descritti nella loro complessità psicologica, “Sugar Money” riconferma, se ce ne fosse bisogno, il talento di Jane Harris nell’affrontare con grande sensibilità un soggetto brutale, crudele e, nello stesso tempo insidioso, come la schiavitù, su cui tanto è già stato scritto.
Particolarmente realistica e vivace è la descrizione del contraddittorio rapporto fra i due protagonisti: Lucien, ansioso di dimostrare al fratello di essere all’altezza del compito che gli è stato assegnato; intelligente, permaloso e, a tratti sospettoso, per inesperienza commette diversi errori. Emile, ha un carattere più chiuso e riflessivo, ed un atteggiamento protettivo verso il fratello, per quanto sia spesso irritato dai suoi modi.

Uno dei tanti tratti distintivi viene ben evidenziato in una Nota sulla traduzione riportata nelle pagine finali:

“A rendere peculiare questa narrazione è che essa non mira, come altre, a descrivere la vita dell’autore dalla nascita in schiavitù al successivo riscatto, ma si concentra su un breve arco di tempo: poche settimane del dicembre 1765”.

Tanto basta a Jane Harris, per trasportare il lettore in un ambiente ancora selvaggio, lussureggiante, ma pieno di insidie, dove potrà sentire, insieme ai protagonisti, il caldo opprimente, il fastidio degli insetti, la pioggia sulla pelle, il gracchiare delle ranocchie...
Ed essere colpito profondamente, se non nel corpo, nell’anima.

Sugar money

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© Riproduzione riservata SoloLibri.net

Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Sugar Money

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