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Recensioni di libri

Settanta acrilico trenta lana di Viola Di Grado

2011 - Una giovane esordiente ci mette di fronte ad un linguaggio nuovo e coinvolgente. Viola Di Grado mostra di saper maneggiare un testo letterario con decisione ad autorevolezza, usando tutti gli strumenti di una lingua sempre più globalizzata e ibridata.

Elisabetta Bolondi
Elisabetta Bolondi Pubblicato il 27-01-2011

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Settanta acrilico trenta lana

Settanta acrilico trenta lana

  • Autore: Viola Di Grado
  • Categoria: Narrativa Italiana
  • Casa editrice: E/O
  • Anno di pubblicazione: 2011

Libro vincitore del Premio Campiello Opera Prima 2011

Leggere questo romanzo della scrittrice esordiente Viola Di Grado, appena ventitreenne, è un piacere ed un shock emotivo allo stesso tempo; un piacere, tale è la sua capacità di costruire un linguaggio veramente innovativo, di rompere gli stereotipi linguistici a cui ci siamo abituati, di inventare forme nuove di comunicazione verbale e non, servendosi di diverse lingue, diversi alfabeti, diverse posture, diversa gestualità; uno shock, tanto la storia e la materia affrontate sono dure, violente, trasgressive, insopportabili talvolta.

Il racconto è quasi inesistente: è la storia di Camelia e di sua madre Livia, nella gelida città di Leeds, in Inghilterra, dove le due sono emigrate al seguito del padre di Camelia, un giornalista ambizioso, che presto trascura la moglie per intrattenere una relazione con una donna inglese, Liz Turpey, insieme alla quale troverà la morte in un incidente d’auto. E da qui parte la tragedia che percorre tutta la storia, poichè Camelia e sua madre finiscono in un gorgo di follia autodistruttiva. Livia, musicista suonatrice di flauto, si lascia andare ad un mutismo e smette di vivere, di mangiare, di suonare, di lavarsi, comunicando con la figlia solo con sguardi carichi di significati noti soltanto a loro. Camelia tenta di arginare la follia silenziosa della madre, ma cade a sua volta in una specie di delirio di violenza: rompe, taglia, sminuzza, amputa vestiti, fiori, oggetti. L’incontro casuale con Wen, un giovane cinese che vuole insegnarle la sua lingua, sembra aprire alla ragazza una via di uscita dal delirio in cui sta precipitando: gli ideogrammi cinesi, il fascino delle chiavi di comunicazione di quella lingua misteriosa sembrano offrire a Camelia una sorta di riscatto fornito da Wen, del quale crede di essersi innamorata. Ma Wen si sottrae alle attenzioni erotiche della giovane donna, che finisce nelle braccia del misterioso fratello di lui, Jimmy. Qui la storia si complica, ma in realtà ciò che sta davvero a cuore a Camelia è il rapporto con sua madre. Costretta dalla figlia a frequentare una scuola di fotografia, Livia ritrova la sua identità, la sua celestiale bellezza, lo splendore dei suoi capelli biondi: ha incontrato un bellissimo uomo, Francis, che si è innamorato di lei e che vuole sposarla. Pronta a partire con lui e dimentica di Camelia e di tutto ciò che la ragazza ha fatto per riportarla alla normalità, Livia provoca nella figlia una reazione violenta con cui l’autrice decide di chiudere questo strano e coinvolgente romanzo.

Al di là della storia incentrata sul solito contrasto amore/odio tra madre e figlia, la peculiarità di questo esordio felice sta nell’uso di un linguaggio sperimentale efficace e intrigante. Ecco allora disseminate nel testo una serie interminabile di figure retoriche:
- la parola chiave del testo, buco, che viene ripetuta infinite volte nelle sue diverse accezioni (il buco dove è morto suo padre, il buco da cui ha origine l’uomo, il buco nel tavolo da pranzo, il buco nelle foto della madre, il buco nel soffitto, un film dal titolo “The hole”, il buco, appunto, il tatuaggio che si fa incidere nel corpo con l’ideogramma cinese che vuol dire buco, ecc);
- continue sinestesie (“dissi uno sguardo di saluto”; ”sverginare il mio silenzio”);
- allitterazioni, come “Blu-pavone blu-acciaio blu-fiore di granturco blu-alice blu-polvere blu-di-Persia” o anche “Forse italiano Forse cinese Forse lingua degli sguardi Forse lingua dei sorrisi Forse la lingua di Jimmy che mi spazza la faccia”;
- l’uso insolito dell’iperbole, sorriso sorrisissimo, guance guancissime, corpo corpissimo, piedi piedissimi;
- accumulazioni, come ad esempio l’elenco di un numero imprecisato di nomi di fiori: fucsie, margherite, crisantemi, papaveri, gerbere, garofani, gigli, gladioli, rose, gardenie, che sono un simbolo della natura che a Leeds sembra non poter esistere e che Camelia (nome di fiore!) decapita, strozza, ghigliottina, distrugge, ammazza, mutila, sbriciola, schiaccia sotto gli anfibi. E che fa pensare ad una natura di plastica, acrilica appunto, come afferma con violenza Camelia:

“E’ una storia vera senza morale che comincia dalle mie forbici e finisce sull’acrilico fiore di tutte le maglie fortunate”

E poi inserimenti di cinema, musica, spettacoli televisivi, Simenon, John Lennon, Casta Diva, Morte a Venezia, Bijork. La giovane scrittrice mostra di saper maneggiare un testo letterario con decisione ad autorevolezza, usando tutti gli strumenti di una lingua sempre più globalizzata e ibridata, e questo fa ben sperare, dato il panorama piuttosto convenzionale e poco innovativo che molta narrativa italiana attuale sembra proporre.

Settanta acrilico trenta lana

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© Riproduzione riservata SoloLibri.net

Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Settanta acrilico trenta lana

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Commenti: 3

  • ada
    24 agosto 2011, 22:32

    la ricerca stilistica dell’autrice a mio avviso è esagerata, appesantisce la lettura e toglie naturalezza

  • serena gobbo
    5 settembre 2011, 09:23

    Mi associo al commento di Ada.
    La fantasia verbale non dovrebbe rubare il palco alla storia e al messaggio. La sperimentazione linguistica fine a se stessa non è un punto a favore.
    L’Ulisse di Joyce (e qui maleditemi pure) è illeggibile.

  • Silvia Fallica
    5 settembre 2011, 18:42

    Ho trovato piuttosto sgradevole la lettura di questo romanzo. Lo stile della scrittrice mi sembra faticosamente ricercato, la forma non scorre, continua ad incepparsi, a cadere nei tanto ribaditi "buchi" esistenziali e materiali. Il tema è talmente tragico da risultare quasi surreale. Forse sarebbe stato originale se la storia narrata fosse stata solo un brutto sogno, un incubo. Perchè questa è la fastidiosa sensazione che ti lascia la lettura del romanzo, la sensazione di trovarti dentro ad un incubo senza via d’uscita, un orrore ed un odio per la vita che non ha un perchè, non una ragionevole motivazione, se non quella da ricercare nella follia della protagonista. Il dramma del lutto vince sull’esistenza dei protagonisti fagocitandoli e riducendoli in brandelli di carne, fiori e tessuti. Probabilmente l’intento era proprio quello di sconvolgere il lettore, di scioccarlo, il che ha reso l’insieme, a mio parere, eccessivo.

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