Peste
- Autore: Alfredo Colitto
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Piemme
- Anno di pubblicazione: 2014
Arte, complotti e un’epidemia manzoniana nella Napoli di metà 1600
È il destino che fa incontrare Sebastiano e Cecilia, una notte di settembre del 1655, a Palazzo Agliaro, a Napoli. La ragazza ha appena visto uccidere a coltellate padre, madre e fratello, saltimbanchi girovaghi. Anche Filieri ha perso la moglie Angela e la piccola Beata, assassinate otto anni prima. I sicari che ora minacciano la giovane sono al servizio del conte Gustavo Guzmàn. Va eliminata, in fretta. Ha visto il nobile incontrare un emissario francese, per tramare il ritorno di Enrico di Guisa, nel 1647 alla testa per qualche tempo del governo cittadino dopo la rivolta di Masaniello.
La quindicenne e l’artista sono i protagonisti di “Peste”, romanzo di cappa e spada di Alfredo Colitto, appena apparso in libreria per i tipi Piemme (250 pagine, 17,90 euro). Buoni e cattivi si distinguono a prima vista. La ragazzina ha gli occhi verdi ed è scalza. Le scarpe costano e nei vicoli di Napoli durerebbero poco. La cosa che le riesce meglio è disegnare, dipingeva i cartelloni da cantastorie del fratello, per gli spettacoli di strada. E Sebastiano Filieri è un bravo pittore, che ha perso la vocazione per l’arte e sta cercando di ritrovarla. Ha 36 anni, è alto, forte e svelto con la spada. Pelle bruna, occhi e capelli neri, lunghi e lisci.
Degli uomini mi inseguono, mi vogliono uccidere, grida Cecilia infilandosi nel portone in via dell’Incoronata che l’uomo sta aprendo. Il primo istinto di Sebastiano è di cacciarla in malo modo. Se pure non mentisse, i guai di questa malcapitata non sono i suoi. Invece, stocco in mano e piglio deciso, allontana i tre. D’impulso, senza ragionare, ha rischiato la vita per una sconosciuta, probabilmente una ladra. Pensa di farsi dire tutto e poi di cacciarla. Ma la storia che racconta non può averla inventata: uno sbarco di sorpresa dei francesi a Napoli, per rovesciare gli spagnoli, grazie al tradimento di un nobile. In più, è tutto vero: la famiglia sterminata, la fuga, gli uomini ancora nascosti ad aspettarla. Certamente sono al soldo di qualcuno che paga bene, un aristocratico.
Il pittore Filieri si caccia a capofitto nell’ennesima causa giusta: proteggere una fanciulla in pericolo. Gli piacciono il coraggio e la determinazione della ragazzina,
lo intenerisce, gli ricorda la sua Beata, si accorge di cominciare a volerle bene come a una figlia. Cecilia invece è delusa d’essere trattata da bambina, si sente donna, anche se il corpo è acerbo, deve ammettere.
Due storie si mettono in moto, l’una contro l’altra. E due gruppi: gli uni sono nascosti nella cappella di Palazzo Agliaro, dove Filieri, il Santàro, è incaricato di dipingere soggetti religiosi, gli altri fanno capo alla congiura per consegnare Napoli ai francesi. A guidare il complotto è una coppia di amici per forza, che diventano ogni giorno più nemici, don Gustavo e l’agente francese, un ufficiale di marina in incognito sotto il Vesuvio. Si finge un venditore effeminato di profumi.
Al servizio del conte c’è un uomo più letale di un’arma. Diego Robledo, 27 anni, ora comanda i bravi di casa Guzmàn, ma è stato soldato, affiliato alla Guardugna, la società segreta militare da cui si dice sia nata la Camorra. Gli adepti si proteggono reciprocamente e taglieggiano i commercianti e gli artigiani.
Sebastiano, a sua volta, ha fatto parte della Compagnia della Morte, l’organizzazione occulta di artisti ribelli che a Napoli tendevano agguati agli spagnoli, per vendicare i soprusi degli occupanti. Una sorta di antenati della resistenza ai nazisti.
Le vicende conducono in palazzi eleganti e luoghi sordidi, tra alti e bassi per tutti e tante situazioni estreme. A Filieri rompono le dita in carcere, per impedirgli di dipingere ed è Cecilia a realizzare capolavori sotto la sua guida, a “diventare le sue mani”.
Una bella storia, un affresco a tinte forti della Napoli del 1600. E su tutto, la vicenda drammatica della peste. L’epidemia dapprima sembra strisciante, nell’indifferenza delle autorità, poi la gente comincia a morire in massa: 250mila su 400mila abitanti. È il grande flagello del 1656, degno delle pagine manzoniane.
Peste
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