Oh, Serafina!
- Autore: Giuseppe Berto
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Neri Pozza
- Anno di pubblicazione: 2023
Nella primavera del 1954, Eugenio Montale ebbe modo di incontrare a Venezia, come inviato del Corriere della Sera, lo scrittore americano Ernest Hemingway.
L’incontro-intervista fu testimoniato da un bell’articolo di Montale, pubblicato il 26 marzo 1954, in cui i due scrittori discutevano dei temi più diversi, ma soprattutto di letteratura e di come fosse cambiata l’Italia negli ultimi anni. All’interno di questa conversazione, è interessante notare l’idea che lo scrittore americano aveva della letteratura italiana coeva.
Conosceva e apprezzava ben pochi autori nostrani, e tra questi fece solo tre nomi: Cesare Pavese, Elio Vittorini e Giuseppe Berto. Se i primi due non ci stupiscono (visto il noto legame che essi avevano con la letteratura americana), il terzo nome potrebbe invece sorprenderci, in quanto, a differenza dei primi due, oggi non compare quasi mai sui manuali scolastici e, al di fuori di una ristretta cerchia di ammiratori, sembra essere stato dimenticato dai più.
Nato a Mogliano Veneto (TV), Giuseppe Berto (1914-1978) è stato senz’altro uno dei migliori scrittori italiani del secondo Novecento, penna raffinata ed elegante, dalla scrittura limpida e scorrevole, con un proprio stile riconoscibile, influenzato tanto dal neorealismo quanto dalla psicanalisi, dal lirismo e dal linguaggio cinematografico.
In vita, Berto fu un autore che ebbe un grande successo di pubblico (furono prodotti molti film tratti dalle sue opere), e anche la critica non ha potuto fare a meno di riconoscerne il talento straordinario. Infatti, nel 1964 ottenne in una sola settimana sia il premio Viareggio sia il Campiello, grazie al suo indiscusso capolavoro, Il male oscuro (Rizzoli, 1964). Ma la produzione di Berto fu molto vasta, inaugurata già nel 1947 con il successo del suo primo romanzo, Il cielo è rosso (Longanesi, 1947). Nel 1954, quando Hemingway lo nominò nell’intervista rilasciata a Montale, Berto era ancora agli inizi della sua carriera letteraria, aveva pubblicato solo tre romanzi, ma il suo nome era già arrivato alle orecchie del più importante scrittore americano dell’epoca. Ma allora perché di Berto si sente così poco parlare? Perché viene escluso dal canone dei grandi del Novecento?
La motivazione, purtroppo, ha radici ideologiche. Sì, perché Berto, negli anni della guerra, è stato suo malgrado dalla parte sbagliata. Egli, infatti, ha indossato la camicia nera e ha combattuto al servizio del regime fascista, e fascista lo fu convintamente. Nel 1943 cadde prigioniero degli americani e finì nel Campo di prigionia di Hereford, in Texas. Qui lo scrittore ebbe i primi contatti con la letteratura americana (lesse Steinbeck e Hemingway) e iniziò a scrivere alcuni racconti e i primi due romanzi. Dopo la guerra, Berto ebbe modo, in più occasioni, di prendere le distanze dal regime che aveva appoggiato e in cui aveva creduto, ma rimase sempre fondamentalmente un conservatore, un uomo libero e fuori dagli schemi, un vero e proprio anticonformista.
Tutto questo gli costò un lungo ostracismo dagli ambienti letterari e culturali del suo tempo, allora dominati dagli intellettuali antifascisti di sinistra. In particolare, celebre rimase l’antipatia, ricambiata, nei confronti di Alberto Moravia con cui non mancarono screzi e querelles. Insomma, Berto fu un vero e proprio outsider, a cui non fu mai perdonato il suo passato fascista.
Nella seconda parte della sua vita si appartò sempre di più nel suo eremo calabrese, a Capo Vaticano (VV), dove aveva acquistato un terreno per edificare una villetta che fu il suo buen retiro degli ultimi anni. Lo scrittore morì di cancro a Roma nel 1978, e oggi riposa in quella stessa terra che egli scelse come luogo dell’anima, sotto un’umile lapide nel cimitero di San Niccolò di Ricadi (VV).
Nonostante il successo di pubblico avuto in vita, dopo la sua morte iniziò a gravare su Berto quasi una damnatio memoriae. Fatta eccezione per i libri più celebri, fino a pochi anni fa, le sue opere erano ancora di difficile reperibilità (e alcune ancora lo sono). Fortunatamente, dal 2016, l’editore Neri Pozza ha deciso di riportare questo grandissimo scrittore all’attenzione dei lettori, avviando la ripubblicazione (ancora in corso) di tutte le sue opere. Oggi, dunque, nella collana “Bloom” dell’editore vicentino possiamo trovare Il male oscuro (2016), La gloria (2017), Il cielo è rosso (2018), Anonimo veneziano (2018), Guerra in camicia nera (2020), La cosa buffa (2021), Il brigante (2022) e, l’ultimo arrivato, Oh, Serafina! (2023), di cui parleremo di seguito.
Se si vuole intraprendere per la prima volta la lettura di Berto, Oh, Serafina! può essere un punto di partenza ideale. Si tratta infatti di un romanzo breve, ironico, “leggero”, scorrevole, ma che concentra in sé molte delle tematiche care allo scrittore.
È lo stesso autore che, nel sottotitolo Fiaba di ecologia, di manicomio e d’amore, ci rivela i nuclei tematici principali del romanzo. Si tratta del penultimo romanzo di Berto, che sicuramente appartiene alla sua produzione “minore”, ma questo non deve indurci a pensare che si tratti di un libro di serie B, in quanto qui è possibile assaporare molte delle caratteristiche del Berto migliore.
È un libro che si legge tutto d’un fiato e che ci permette di godere, oltre che di una storia divertente (e istruttiva), anche della meravigliosa prosa di Berto.
Egli è stato un vero maestro della scrittura, arte che riusciva a padroneggiare con una semplicità e un’eleganza fuori dal comune, anche negli scritti meno “impegnati”.
Il romanzo è stato pubblicato per la prima volta da Rusconi nel 1973, e il risvolto di copertina della prima edizione ci mette subito davanti a una confessione, apparentemente controproducente, dello stesso autore:
Ho scritto questo libro perché avevo bisogno di soldi. Mi capita spesso di aver bisogno di soldi: non guadagno poi molto, sono imprevidente nelle spese, e lo Stato mi fa pagare troppe tasse. Di solito risolvo questi problemi di denaro lavorando per il cinema. Anche questa volta volevo far così e in effetti “Oh, Serafina!” sarebbe dovuto essere soltanto un soggetto per un film.
Il lettore che intraprenderà la lettura di questo libro si renderà subito conto di questa primaria impostazione cinematografica, tuttavia, dal momento che nessun produttore sembrava interessato a ricavarne una pellicola, Berto decise di trasformare il testo in un breve romanzo. Quando il libro uscì, però, ebbe un inaspettato successo (seppur non paragonabile a quello dei capolavori precedenti) e si aggiudicò addirittura il premio Bancarella. Così, solo tre anni dopo, fu portato sullo schermo dal regista Alberto Lattuada, in un film che vide come protagonisti Renato Pozzetto e Dalila Di Lazzaro, mentre la colonna sonora venne firmata da Fred Bongusto, poi premiato con il Nastro d’Argento.
Come si è già accennato, nel libro si ritrovano diversi motivi ricorrenti delle altre opere di Berto, seppur in una dimensione insolita e in un’aria sospesa tra fiaba e realtà.
Il romanzo si articola in 17 brevi capitoli più un epilogo, sempre introdotti da sintetici sommari riassuntivi che già sottolineano la direzione umoristica della narrazione. Il protagonista è Augusto Valle, soprannominato Augusto Secondo, per distinguerlo dal nonno, omonimo, da cui ha ereditato una fabbrica di bottoni. Egli è un uomo semplice e d’altri tempi, a tratti ingenuo, un vero e proprio idealista dal cuore puro, totalmente controcorrente rispetto alla direzione in cui sta andando la società moderna.
Tuttavia, non è privo di una certa testardaggine che lo porta a difendere i suoi ideali e a mettere in atto le sue decisioni. Augusto lotta quotidianamente contro la società tecnologica che sta distruggendo la natura, il paesaggio e i suoi abitanti, rimanendo, anche nelle vesti di piccolo industriale, completamente estraneo al sistema capitalistico e all’idea di progresso (soprattutto quando questo va a scontrarsi con la tutela dell’ambiente).
Seguendo le orme di San Francesco, il protagonista trascorre gran parte delle sue giornate nel parchetto dietro alla fabbrica a parlare con gli uccelli. Quello spazio verde, “dove gli alberi, piantati da chissà quale bisavolo, crescevano”, diventa il centro della sua vita, ed egli tenta di proteggerlo con ogni sforzo dal cemento circostante. Infatti, intorno a esso:
invece di alberi, crescevano fabbriche e case, fabbriche e case, sempre più fabbriche e sempre più case, finché non ci fu più cielo né ci furono più stagioni, e gli uomini lavoravano molto dicendo ma che caldo boia ma che freddo boia, e la domenica si facevano due o anche tre ore di macchina per andare a vedere, quasi sempre in Svizzera, com’era fatta l’aria pulita.
La tematica ecologica, emerge sin dall’inizio del romanzo, con una costante polemica – disseminata in diversi luoghi della narrazione – contro la civiltà industriale che deturpa l’ambiente a vantaggio dell’utile economico, soprattutto nel nord Italia, dove la storia è ambientata.
Così quel “mezzo ettaro di parchetto” alle spalle della fabbrica diventa l’ultimo baluardo incontaminato dove Augusto preferisce trascorrere il suo tempo:
ad accudire agli uccelli, sempre più numerosi e sempre più bisognosi di un patrono come lui. La megalopoli, infatti, sempre più s’infettava, sempre più s’infittivano le ciminiere eruttanti veleni foscamente colorati, sempre meno ci si vedeva, meno ci si respirava.
In Augusto convive una doppia personalità, da un lato una certa aspirazione alla santità, dall’altro gli impulsi sessuali nei confronti delle donne. Proprio al sesso sono infatti legate molte delle scene umoristiche del romanzo. In lui:
c’erano il bene e il male, il lupo e il fanciullo, sicché dopo tanta elevazione diurna, al calar delle tenebre, per una sorta di dicotomia schizofrenica, lo prendeva la lascivia.
È proprio quest’ultimo aspetto che lo porta a sposare un’operaia della sua fabbrica, Palmira, che lo attraeva principalmente per il suo bel fondoschiena. Quest’ultima, però si rivelerà presto un’arrampicatrice sociale, che ha sposato Augusto solo per interesse e per mettere le mani sulla sua fabbrica. È una donna che si concede a molti uomini con estrema facilità, spesso per ottenere qualcosa in cambio, e il marito ne è pienamente consapevole, anche se la cosa non sembra interessarlo granché.
Palmira arriva addirittura a fargli credere che il loro unico figlio, Giuseppe, non sia il suo, ma di Carlo Vigeva, titolare e proprietario delle omonime Officine Meccaniche.
I contrasti fra marito e moglie andranno sempre aumentando di pari passo alle stranezze di Augusto, che sembra vivere fuori dal mondo, attaccato a un passato in contrasto con la rapida evoluzione della società moderna. Augusto continuerà dunque a trascorrere le sue giornate nel parco a dialogare con gli uccelli, inizierà a indossare un paio di baffi posticci per assomigliare all’amato nonno defunto e si rifiuterà di fabbricare bottoni in plastica al posto di quelli in osso e madreperla, che secondo il ragionier Cusetti avrebbero costituito un notevole vantaggio economico per la fabbrica. Quella che ai personaggi appare come l’ennesima stramberia del protagonista a noi fa l’effetto di una vera e propria profezia.
Infatti, Augusto, messo davanti a questa proposta di innovazione, risponde in modo categorico:
Niente plastica. L’umanità morirà sommersa dalla plastica.
Gli strani comportamenti di Augusto, però, non fanno altro che offrire alla moglie Palmira l’occasione, in accordo con il suo medico, di far rinchiudere il marito in un manicomio. Ed ecco che verso la metà del romanzo entra in scena il tema della follia, tanto caro a Berto. Augusto non solo aveva adottato comportamenti strani, da indurre il medico e la moglie a dichiararlo pazzo, ma proveniva da una famiglia in cui predominava l’instabilità psicologica.
Infatti, il padre si era suicidato lanciandosi da un campanile e la madre era morta di un male oscuro (espressione che dà il titolo al capolavoro di Berto e che è riconducibile alla depressione).
Nonostante in un primo momento Augusto cercherà di dimostrare in ogni modo di non essere pazzo per uscire dal manicomio (ma per uscire non basta dimostrare di essere normali, occorre la più difficile dimostrazione di non essere pazzi), presto all’interno di quella che per lui è una vera e propria prigione, farà un incontro inaspettato: una ragazza dalle fattezze angeliche di nome Serafina (il nome stesso serve a connotare ancora più esplicitamente la donna-angelo).
Augusto Secondo non fece alcuna fatica a paragonarla ad un angelo, anche perché a suo parere gli angeli, certo per via delle ali, erano la cosa più simile agli uccelli che ci fosse al mondo.
Serafina è anche una paziente del manicomio, rappresentata come una sorta di figlia dei fiori che ama passare le giornate a suonare lo zufolo. Quando incontra Augusto infatti, lei suona lo strumento emettendo delle “note a canto d’uccello”, tanto basta al protagonista per innamorarsi follemente della ragazza.
Serafina Bozzòli è, inoltre, la figlia di un grande editore, finita per ben due volte in manicomio a causa del suo scontro con il padre, contro cui aveva aizzato la contestazione giovanile. Il mestiere del padre di Serafina, offre lo spunto all’autore per una dura polemica contro l’industria editoriale; l’editore Bozzòli infatti, pur producendo libri, rimane comunque uno “sporco capitalista”, interessato più al guadagno che alla qualità dei libri che pubblica.
Emblematico di ciò è l’episodio in cui la figlia gli propone di pubblicare le poesie scritte da Maurizio, un giovane di cui si era innamorata, ma prima di farne un volume:
L’editore Bozzòli fece esaminare le poesie dai suoi esperti, sia artistici che economici, e poi disse a sua figlia che lui faceva l’industriale, e non il mecenate di giovani deficienti.
Tanto Augusto quanto Serafina, dunque, esprimono il rifiuto del “sistema”, ma con modi e mezzi differenti: provocatori e contestatari quelli di Serafina, francescanamente semplici, anche se ostinati, quelli di Augusto.
In ogni caso fra i due si crea un’alchimia perfetta, che permette al protagonista di abbandonare definitivamente quel mondo che lo ha sempre etichettato come “strano”, adesso egli ha trovato una complice e un’alleata:
Ci siamo incontrati per aiutarci l’un l’altro”, essa disse, e ormai non c’era alcuna ragione di dubitarne.
Augusto, emarginato come lo stesso Berto, rappresenta, pirandellianamente, l’eroe che si scontra con la società e che rifiuta di uniformarsi alla morale borghese che gli viene imposta, per questo, come Ciaùla che si ribella al suo capoufficio, viene creduto pazzo ed escluso dal mondo dei “normali”.
Ma come in ogni fiaba che si rispetti, anche questa ci riserva un lieto fine che non deluderà il lettore. Insomma, con Oh, Serafina! Giuseppe Berto ci offre un libro semplice e ironico, in cui si ride tanto, ma che ci spinge anche a riflettere su molti temi che si rivelano ancora oggi quanto mai attuali.
Oh, Serafina!
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