

Mexico City Blues
- Autore: Jack Kerouac
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Mondadori
- Anno di pubblicazione: 2020
Ho letto questo libro due volte: la prima per respirare l’odore di Città del Messico, per perdermi nelle sue strade polverose, dove il caos si mescola all’incanto, per trovare rifugio nella stanza d’albergo del poeta, soffocante e scarna, compagna delle sue solitudini. Ho letto per perdere il sonno con la droga, lasciando che il tempo si dilatasse e sfuggisse al suo stesso ritmo, come un sax che improvvisa nel buio. La seconda volta l’ho letto per penetrare e affogare nei suoi pensieri, nell’intimità della sua anima. Ho inseguito le sue visioni tra le pagine, cercando di scorgere l’uomo dietro il poeta, la carne dietro le parole, la sua fame di vita e di eternità. Fra versi che si accavallano come onde inquiete, ho ascoltato il suono di una confessione sincera e devastante.
Mexico City Blues (Mondadori, 2020, trad. di Leopoldo Carra) è al tempo stesso testamento e manifesto del padre della Beat Generation, Jack Kerouac. Non è solo un libro, ma un’esperienza che si vive in apnea, un lungo respiro trattenuto fino all’ultima pagina. Si impone come il grande poema del Novecento: suoni e parole si mescolano in una jam session dell’anima di Kerouac con il mondo. Le parole diventano note e il poeta è il musicista che le addomestica a suo gusto, dando vita a una melodia ritmica e sincopata, che scivola irregolare come un flusso di coscienza.
C’è il jazz in queste pagine, c’è il ritmo frenetico di un’anima che non trova pace. Kerouac suona il mondo come Charlie Parker suonava il sassofono: frammenti, sussurri, urla. Ogni chorus è un assolo, un’improvvisazione che si perde nel vento caldo di Città del Messico, nelle notti insonni in cui i demoni della mente ballano senza tregua.
Infanzia, spiritualità, vita e morte si susseguono senza distinzione né interruzione, proprio come la sua prosa: un lungo rotolo srotolato sul pavimento. C’è un continuo oscillare tra la ricerca del divino e l’accettazione della propria miseria umana, tra estasi e tormento. Kerouac si confessa senza pudore, senza filtro. E noi, lettori, ci ritroviamo a camminare accanto a lui, lungo le strade di una città che diventa metafora dell’esistenza.
Va detto che nella trasposizione dall’inglese all’italiano il senso più alto dell’opera inevitabilmente si perde. Salvaguardare senso e ritmo è un’impresa ardua e questo mortifica leggermente il testo. La musicalità originale si affievolisce, la sincope si fa più timida. Ma nonostante questo, resta la potenza viscerale delle immagini, la forza dei pensieri che si riversano in un flusso incessante.
Consiglio comunque la lettura, perché Mexico City Blues non è solo un libro, ma un viaggio nell’anima di Kerouac. Un viaggio che richiede abbandono e apertura. È una danza mistica tra parole e silenzi, un canto sciamanico che risuona nelle viscere. Coinvolgente e dolce, pervaso da un misticismo tangibile, come un sogno febbrile che ti accompagna anche dopo aver chiuso l’ultima pagina.
Consiglio per la lettura: scegliete le ore notturne, quando la città si addormenta e resta solo il respiro del vento. Lasciate che la luna piena illumini le pagine, accompagnatevi con una buona bottiglia e un sottofondo musicale. Un buon blues sarebbe perfetto. Perché Jack Kerouac va letto così, come si ascolta un vecchio disco di jazz: a occhi chiusi, lasciandosi trasportare.

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