Mephisto, romanzo di una carriera
- Autore: Klaus Mann
- Genere: Classici
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Garzanti
- Anno di pubblicazione: 2021
Mentre il mondo sta producendosi in una torsione, facendo leva sul suo asse centrale, l’Occidente – il capitalismo, divenuto digitale da fordista, ha reciso il cordone con il liberismo democratico, ovunque spira un vento anti-modernista e i cannoni tuonano –, in libreria troviamo sempre i soliti libri su commissari, avvocati, prefetti, che indagano sul niente o una congerie di tomi sui cuori infranti di platonici fidanzati di campagna o dionisiaci, infuocati amanti nascosti nei labirinti delle città. C’è una contraddizione tra crisi e qualità della letteratura? O, più semplicemente, l’arte - anzi, l’Arte - ha un ruolo da giocare quando “il gioco si fa duro”?
Secondo Klaus Mann, figlio del più celebrato Thomas, sì: l’Arte non indietreggia, non volge altrove la testa, non finge, non tratta di altro, l’Arte dà la voce a chi è stato reso muto, lo sguardo a chi è stato accecato, la Parola a chi non ha mai parlato. Solo per memoria: nei primi decenni del Novecento, che per molti aspetti assomigliano ai tempi correnti, la crisi dell’Occidente partorì capolavori immensi sul crepuscolo degli idoli: l’ultimo tomo della Recherche di Proust (Il tempo ritrovato), L’Ulisse (Joyce), La montagna incantata (T. Mann), L’uomo senza qualità (Musil), I sonnambuli (Broch), l’elenco potrebbe proseguire.
A questo insieme di opere - che levarono forte la voce per indicarci i colori stinti del vespero e per dire: “io no!” - appartiene Mephisto, romanzo di una carriera, di Klaus Mann pubblicato nel 1936, solo dopo tre anni dalla presa del potere da parte di Hitler (Garzanti, 2021, trad. italiana di F. Ferrari e M. Zapparoli).
Il libro narra la vicenda, negli anni trenta del Novecento, di Höfgen, un mediocre attore di teatro che, folgorato dalla rivoluzione bolscevica del 1917, insieme a un ristretto manipolo di “sognatori”, brama di costruire una forma di rappresentazione rivoluzionari e proletaria – il Teatro Rivoluzionario - ma che con l’avvento del Nazismo vira completamente, divenendo il protetto di Göring, il gigantesco demone seduto alla destra di Hitler, in forte contrasto con l’altro angelo maldetto, Goebbels. I due “dioscuri” del nazismo, l’uno contro l’altro armati per il favore della Divinità malvagia, non potevano differire di più: il primo una sorta di Polifemo e il secondo un nano dal satanico piede caprino; sono, per Mann, “il ciccione” e “lo zoppo”, opposti in tutto, salvo nella frequentazione del Dio del Male.
Mann ci mostra l’aspetto grottesco del potere e delle cause della sua pervasività nella società tedesca: in particolare, l’inclinazione psicologica che Fromm definì “Fuga dalla libertà” e che riprese dalla formidabile intuizione del Dostoevskij della “leggenda del grande inquisitore”, ne I fratelli Karamazov; l’Uomo accoglie il dittatore perché in tal modo rimuove il terrore, il peso morale ed epistemologico, delle decisioni! Ma nel grottesco Höfgen c’è di più: una sulfurea deriva verso il masochismo; come teorizzato da Freud ne Al di là del principio di piacere, non v’è godimento superiore alla ripetizione dell’esperienza dolorosa, di falsa dolorosità: il piacere estremo è inscindibile dall’ombra della morte! Anche questa è una delle radici dello sfondamento del fascismo nei confronti delle masse, si pensi alla tesi proposta da Deleuze e Guattari in L’Antiedipo, capitalismo e schizofrenia.
L’attore incarna, per Mann, la ragione psicologica del totalitarismo, la freudiana pulsione del ritorno alla materia: ha una relazione al vetriolo con una ballerina-prostituta di colore dallo sguardo “abbietto e depravato” da cui viene, con suo grande godimento, umiliato e scudisciato:
’Dammi le zampe!’ […] Mentre sollevava le braccia, lei contava con voce sgraziata e stridula ‘Uno, due, tre!’ L’intreccio dell’elegante frusta sibilava crudelmente sulle palme delle mani di lui, dove ben presto comparvero larghe striature rosse… ‘Come inizio può bastare!’, disse lei ostentando un sorriso stanco.
In mezzo a un mare di peripezie, Höfgen, una vera e propria maschera - da “commedia dell’arte” - della doppiezza e del cinismo, riesce – eliminando dalla sua vita gli amici di un tempo e tessendo con i nuovi potenti una rete di piaggeria e opportunismo - a farsi una nuova verginità fascista dopo la giovinezza comunista. Non che Höfgen non veda di cosa sia fatto il potere inumano che fa gemere la Germania, ma in fondo in fondo, come molti ben pensanti, crede che possa essere utilizzato come controllore dell’ordine, per cui dei Nazisti pensa che:
Dobbiamo fare tutto il possibile per ammansirli a forza di democrazia. Dobbiamo conquistarli invece di combatterli. Dobbiamo conquistarli alla Repubblica.
Qualche anno dopo fu chiaro che l’idea borghese di poter controllare e utilizzare la destra estrema in chiave antisocialista e antisindacale aveva rappresentato un enorme errore di valutazione!
Intanto, Höfgen – che decide di non vedere nulla, non udire nulla, non capire nulla - riesce a ottenere la parte di Mephisto nel Faust di Goethe: rappresentare il negoziato tra l’Uomo e il metafisico Dio del Male, di cui Hitler è il rappresentante in terra, l’immagine immanente, significava creare la metafora dei tempi correnti. Il successo è eclatante:
Hendrik Höfgen – specialista in mascalzoni, assassini in frac, intriganti storici – non vede nulla, non sente nulla, non trova nulla. Non vive affatto nella città di Berlino – come, a suo tempo, non ha vissuto nella città di Amburgo - ; […] è cosciente del fatto che gli anni passano – gli ultimi di questa Repubblica di Weimar, che è stata salutata un tempo come una speranza e che ora si spegne con tanta pena: gli anni 1930, 1931, 1932?
Dalla metafisica dello scambio tra Uomo faustiano e Diavolo, la carriera di Höfgen, e anche la sua popolarità tra i quadri del Nazismo, ha un’impennata maestosa: è il giullare di corte, l’imbonitore cui non manca mai il motto che risolve l’impasse, il genio teatrale cui si può pure perdonare il passato colorato dal rosso del comunismo; lui s’allontana ulteriormente dalla realtà, finge di non vedere e questa foschia del mondo, che diviene latitanza di sé stesso, gli regala un apparente autoassoluzione.
Ma un primo sisma si manifesta in lui quando è chiamato a rappresentare l’altro archetipo dell’Uomo occidentale, Amleto, il Principe di Danimarca: fermo, stecchito sotto un cielo di che fa del dubbio irrisolvibile il suo sole buio. Il libro tratteggia la polarità tra i due stereotipi: Faust “salvato” dal patto luciferino dal germe dell’inedia, dell’incertezza, e Amleto, che nessun dio o demone può salvare. I nervi di Höfgen cominciano a cedere, rivede criticamente tutte le scelte fatte, o quelle abortite, della sua vita.
I fatti narrati divengono convulsi, insistenti, non accettano la rimozione: un suo amico attore che ha fatto la scelta opposta alla sua, di combattere il nazismo tramite l’Arte ma anche tramite l’azione, è torturato fino alla morte dagli sgherri di Hitler, e anche per Höfgen-Faust è troppo! L’attore crolla e si presenta di fronte al suo mentore Göring a chiedere conto della morte del suo amico:
Per un istante Hendrik vacillò. Con un gesto incontrollato, che troppo chiaramente tradiva il suo orrore, si premette la mano sulla fronte. Era forse il primo gesto del tutto sincero, assolutamente non affettato, che il Presidente dei Ministri (Göring), poteva osservare nell’attore Höfgen.
A questo punto Mann potrebbe fornire una via d’uscita al suo anti-eroe, gli potrebbe proporre una scelta forse fatale ma che riscatti tutta la sua vita, gli potrebbe mostrare la via del dissenso al totalitarismo con la Parola fornita dall’Arte; ma non è questa la chiave di volta del libro. Non v’è nessuna salvezza nel mondo di Faust, nessuna redenzione per Höfgen, l’Arte dichiara la sua irrilevanza, la sua incapacità a combattere sul terreno della vita pulsante, a dare conto del Male e battersi nel corpo a corpo contro di esso nel nome della Verità della Parola.
Cosa vogliono da me? Perché mi perseguitano? Perché sono così duri? Io sono solo un attore, un attore come tanti altri!
“Io sono solo un attore!” Nel pessimismo morale-epistemologico di Mann, il rapporto tra artista e potere si risolve, pertanto, o nel servilismo o nella distinzione netta degli ambiti di riferimento: siamo condannati a vedere un confine angusto tra cielo e terra, avaro e insanguinato. e a leggere libri che non trattano di questo orizzonte perché c’è ben altro di luminoso da raccontare.
Come parodiarono Bennato e Guccini: “ma che politica, ma che cultura, sono solo canzonette”; “però non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni…” e così sia!
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Ci sia interessato ai libri storici e/o di filosofia morale
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