Le ragazze invisibili
- Autore: Henning Mankell
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Marsilio
- Anno di pubblicazione: 2017
Non è in fondo anche questa la magia dei libri: ritrovarsi fra le mani il nuovo (almeno per noi) romanzo di un autore scomparso da un paio di anni?
Questo è successo a Henning Mankell, lo scrittore svedese noto soprattutto per i suoi romanzi polizieschi e per il loro protagonista, Kurt Wallander, commissario della polizia di Ystad: morto il 5 ottobre 2015, all’età di 67 anni, Henning Mankell ci ha lasciato una preziosa eredità che rappresenta l’altra faccia di un animo sensibile a problemi di grande impatto sociale. Si tratta di libri che affrontano temi che gli sono stati particolarmente a cuore e che, attraversando tutta la sua produzione letteraria, invitano il lettore a riflettere, proprio come “Le ragazze invisibili” (Marsilio, 2017).
Scritto nel 2001, è un romanzo dove commedia, satira e tragedia trovano una sintesi perfetta; una storia dove si alternano anche diversi registri: dal divertente e dall’ironico al serio, dal sarcastico all’impegnato.
In questo modo, lo scrittore che ha venduto milioni e milioni di copie, riesce a raggiungere nuovamente i suoi lettori che, forse, sentiranno meno la sua mancanza.
Il protagonista è il poeta quarantaduenne Jesper Humlin.
Pubblica ogni anno una raccolta di poesie e vive la propria esistenza – tanto regolata da riti da diventare noiosa, proprio come le sue poesie – senza essere veramente coinvolto in ciò che fa:
“Jesper Humlin, uno degli scrittori di maggior successo della sua generazione, era preoccupato per la sua abbronzatura. Un’ansia indubbiamente maggiore dell’altra che lo tormentava, cioè il destino delle impenetrabili raccolte di poesie che pubblicava regolarmente ogni 6 ottobre, il giorno del compleanno della madre, che aveva ormai ottantasette anni. Proprio quel mattino, alcuni mesi dopo l’uscita dell’ultima raccolta, stava controllando il colorito allo specchio del bagno, costatando con soddisfazione che la tonalità era uniforme”.
Egoista ed egocentrico, è tuttavia succube di tutti quelli che lo circondano, che sembrano non ascoltare mai quello che ha da dire – i dialoghi sono senza dubbio le parti più divertenti del libro – e che lo coinvolgono in situazioni al limite del paradossale.
Andrea, la fidanzata, infermiera anestesista, conosciuta durante una serata di lettura alcuni anni prima, quando aveva deciso di mettere fine alla propria vita irrequieta di single, vuole un figlio da lui e minaccia di scrivere un libro sulla loro relazione.
Se il suo apprezzamento verso le sue poesie lo aveva sedotto immediatamente, lei, quando è arrabbiata – cosa che avviene molto frequentemente –, lo accusa di averla scelta per le sue conoscenze mediche: nel suo immaginario ipocondriaco, Humlin è infatti costantemente affetto da malattie mortali.
La madre, con cui ha un rapporto conflittuale, è un’anziana signora molto vivace, che ha avviato un’attività di sesso telefonico e che sta scrivendo un poliziesco – di almeno settecento pagine, perché i libri sono cari e i romanzi voluminosi durano più a lungo:
“Andava a trovare la sua vecchia madre tre sere la settimana. Era ancora molto vitale, ma ostinata e sospettosa, e lui non riusciva mai a prevedere come si sarebbe svolta la loro conversazione, nonostante preparasse sempre mentalmente un paio di argomenti innocui. Se finivano per litigare, non riusciva ad evitare di augurarsi che morisse presto. Tuttavia, quando capitava che trascorressero una bella serata, si lasciava prendere dal sentimentalismo e si diceva che avrebbe potuto dedicarle una raccolta di poesie”.
Anche con il suo editore le cose non vanno meglio. Dopo avergli fatto notare che la vendita di milleduecento copie dell’ultimo libro non sono sufficienti a giustificare la sua pubblicazione, gli consiglia di scrivere un romanzo poliziesco e fa partire una campagna mediatica basata sul nulla, ma capace di scatenare una serie di malintesi:
“Olof Lundin era tra le persone più nebulose che Humlin avesse mai incontrato e si era chiesto molte volte come un uomo tanto incostante dal punto di vista intellettuale avesse potuto scalare la vetta di quella importante casa editrice”.
Fra le sue abitudini ormai consolidate, c’è quella di incontrare periodicamente un collega:
“Una volta al mese cenava con Viktor Leander, un collega scrittore suo coetaneo. Si erano conosciuti da giovani, quando nessuno dei due aveva ancora pubblicato qualcosa, e avevano l’abitudine di vedersi per scambiare notizie sui rispettivi progressi letterari, e carpirsi informazioni. La loro relazione si basava sulla reciproca consapevolezza di detestarsi cordialmente. Condividendo lo stesso mercato di lettori, temevano entrambi che un colpo di genio dell’uno riducesse in polvere l’altro”.
Deciso a dare al genere una valenza letteraria e del filo da torcere a tutti quegli autori di bestseller che non sanno scrivere, Viktor Leander ha in mente di pubblicare un poliziesco.
E, come se non bastasse, quasi fosse vittima di una congiura della cui portata si è reso conto troppo tardi – tutti quelli con cui parla hanno un libro nel cassetto – il suo consulente finanziario, non solo ha provocato perdite irreparabili nel capitale che Humlin ha investito, ma vorrebbe avere da lui un consiglio sul poliziesco che sta scrivendo:
“Anders Burén aveva la rispettabile età di ventiquattro anni ma ne dimostrava quindici. Aveva scalato il mondo della finanza dopo aver iniziato, già ai tempi del liceo, a investire nel settore dell’informatica denaro preso in prestito. Doveva ancora diplomarsi quando portò a casa il suo primo milione. Per qualche anno aveva lavorato nello studio di uno dei più famosi finanzieri del paese, poi ne aveva aperto uno per conto proprio. (…) Al pensiero che Burén considerasse l’arte di scrivere come qualcosa alla sua portata, Humlin si sentì profondamente offeso. Ma naturalmente non gli disse niente”.
L’affermato autore adora però andare di città in città a leggere poesie e a parlare con i lettori: abituato ad un pubblico adulto e selezionato, Humlin non sa che alla prima delle serate organizzate presso due biblioteche nei sobborghi di Göteborg, non sono presenti solo signore in là con gli anni in attesa di ascoltarlo, ma anche un gruppo di uomini che provengono da una casa di accoglienza per ex detenuti, i quali scatenano un vero e proprio parapiglia. Prima di lasciare la biblioteca da un’uscita laterale, lo scrittore fa la conoscenza di una ragazza di colore con un sorriso stupefacente che dice di chiamarsi Tea-Bag, il nome che lei stessa ha dato al funzionario del campo profughi spagnolo da cui proviene:
“«Come ti chiami?»
Fu allora che decise di darsi un nome nuovo. Si guardò rapidamente intorno e il suo sguardo si fermò sulla tazza di tè sopra la scrivania.
«Tea-Bag.»
«Tea-Bag?»
«Tea-Bag.»
«È un nome curdo?»
«A mia madre piacevano i nomi inglesi.»
«E ti pare che Tea-Bag sia un nome?»
«Deve esserlo, visto che mi chiamo così».”
Al termine della seconda serata Humlin è costretto invece a presenziare ad una festa organizzata in suo onore presso la palestra di un vecchio amico, Pelle Törnblom: lì, incontra una ragazza iraniana obesa, Leyla, che gli confida di voler diventare una scrittrice per poter raccontare la “sua” storia.
È così che nasce in lui l’idea – da tutti considerata sconveniente e poco redditizia – per il suo nuovo libro: aiutare la ragazza gli permetterebbe di scrivere degli abitanti immigrati di Stengården.
La situazione, però, gli sfugge di mano e al successivo incontro con Leyla si presenta una cinquantina di persone: oltre a parenti e amici pronti ad assistere alla lezione, ci sono altre due ragazze che vorrebbero partecipare al corso di scrittura creativa, Tea-Bag e Tanja.
Le tre coinvolgono lo scrittore in una serie di situazioni incredibili e assurde e si confidano con lui: il loro frammentario racconto non sempre è coerente e probabilmente neppure veritiero, ma al suo confronto, la vita e le poesie di Humlin appaiono davvero insignificanti.
Tea-Bag è una ragazza nigeriana che, dopo essere fuggita da un campo profughi spagnolo dove tutti mentivano per nascondere la propria identità e rendere più interessante la domanda di asilo, ha attraversato l’Europa, convinta che in Svezia ci fosse per lei un’opportunità e qualcuno interessato alla sua vicenda.
Tanja è arrivata dalla Russia, da Smolensk: con la stessa speranza di Tea-Bag, ha attraversato il Mar Baltico dopo essere fuggita da chi, con l’inganno, l’aveva costretta a prostituirsi. Se Leyla è arrivata dall’Iran da bambina e cerca di fuggire da un padre violento, le altre due ragazze non hanno una famiglia, vivono in un paese straniero in solitudine, senza nome, senza fissa dimora e senza documenti: Humlin scopre così l’esistenza di una Svezia sconosciuta e clandestina in cui molti immigrati sono costretti ad un anonimato forzato e a rinunciare ai loro veri nomi e nazionalità.
È l’interesse per queste storie che spingono lo scrittore ad andare avanti:
“Sto perdendo nuovamente il controllo, pensò. Poi, per un breve attimo, rivide davanti a sé le immagini di Leyla, Tanja e Tea-Bag. Leyla con il suo corpo sgraziato, Tanja con il viso girato verso la parete e il sorriso di Tea-Bag. Forse interessandomi alla storia di quelle ragazze, farei qualcosa di decente, si disse. Una buona azione in questa babele di aspiranti scrittori”.
E, soprattutto, a comprendere qualcosa di se stesso:
“Siamo al limite dell’assurdo, pensò. Un consulente finanziario che vuole trasformarmi in una società e una ragazza che dice di chiamarsi Tea-Bag che dorme sul divano nel mio studio e parla di una paura che nasce dentro di lei. E la mia, da dove nasce? Dalla consapevolezza che le mie azioni non valgono più niente e Andrea mi fa delle richieste che non riesco a soddisfare. E poi mi terrorizza l’idea di mia madre che scrive un libro, forse un bestseller. Ho paura che il mio editore mi scacci e che la mia prossima raccolta di poesie venda meno di mille copie. Ho paura di recensioni negative, ho paura di perdere la mia abbronzatura. In parole povere, ho paura di tutto quello che possa svelare che sono una persona priva di passioni e di carattere”.
Forse Humlin scriverà il suo libro da cinquantamila copie, o forse no. Forse le ragazze invisibili usciranno dall’ombra, o forse no, ma sorprende come, diciassette anni fa, quando il fenomeno dell’immigrazione non aveva ancora raggiunto dimensioni significative, Henning Mankell ne avesse già percepito tutta la drammaticità e le conseguenze.
Le sue ragazze invisibili, ci spiega, esistono veramente: i loro veri nomi non sono importanti, le loro storie, invece, sì.
Ed è questo che rende “Le ragazze invisibili” una lettura estremamente attuale, appassionata e commuovente: seguendo questo consiglio di lettura, potrete cominciare il 2018 davvero con un buon libro, così come io ho concluso il 2017.
Le ragazze invisibili
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