La grande Eulalia
- Autore: Paola Capriolo
- Genere: Raccolte di racconti
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Feltrinelli
A volerla inquadrare da focus estetico-ontologici, l’estate è la più sciatta delle stagioni: striminzisce nella volgarità del chiasso le promesse potenziali della primavera, per esempio. Afosa-afasica per statuto, l’estate si dissipa in modo sfacciato, senza impegno, nuda, populista, ottusa. Sciocca. Per contrappasso cerco riparo tra letture eleganti e pregnanti: “La grande Eulalia”, di Paola Capriolo (Feltrinelli, 1988), è fra queste. Lo rileggo a distanza di anni, e non cambio opinione: siamo in zona classici moderni, per dirla tutta e senza mezzi termini.
“La grande Eulalia” è un libro di racconti (quattro): tra i più nitidi e suggestionanti che mi sia capitato di leggere. È un libro dal fascino oscuro, affacciato dritto sull’abisso. Lo guarda in faccia, vi sbircia dentro, attratto dal richiamo del suo niente. Attratto dalla fascinazione per la voragine, per l’annichilimento, per il perdersi e ritrovarsi altro da sé. “La grande Eulalia” è il libro di racconti con cui Paola Capriolo inaugura nel 1988 la sua prima stagione narrativa, traghettando la consuetudine autoreferenziale del romanzo italiano verso geografie ulteriori, metafisiche e perturbanti. Per dirla in modo diverso: resta pur sempre una questione di forma e contenuti. Come se i racconti de “La grande Eulalia” fossero scaturigine di una terra di mezzo, di un’interzona limbica, sghemba, febbrile, che annovera al contempo salvezza e perdizione, raziocinio e delirio. Il clima narrativo risulta rarefatto, ipnagogico, espressione di una liturgia sacrificale cui i personaggi si offrono motu proprio, come esposti a contaminazione. A un’alterazione di sé che muta per gradi verso una resa esistenziale che può essere anche rivelazione.
Il racconto che dà il titolo alla raccolta è, in tal senso, un paradigma di amore e dannazione. Un’ideale premessa alla costante “del doppio” nei primi romanzi di Paola Capriolo. Eulalia coltiva in sé una natura catartica. In quanto attrice è infatti adusa alla transustanziazione, come alla frequentazione estatica di un mondo di rimando. Un mondo speculare, che esiste solo per lei, dentro al quale finirà col perdersi per sempre, sottomessa al richiamo di un fantasma sentimentale. Un po’ come Adele - che in un percorso progressivo di prigionia, rinuncia e ossessione - soggiace, ne Il gigante, all’invisibile trama intessuta per lei dal prigioniero alla cui custodia è preposto il marito militare. L’aria della prigione (una declinazione gotica della fortezza Bastiani buzzatiana) è satura di oscure malie: la malia della musica parimenti a quella esercitata dall’abisso, innanzi tutto: ogni sera il prigioniero (di cui si può intravvedere solo l’ombra gigantesca) suona il violino e Adele via via lo corrisponde al piano. Instaurando con lui una liason a distanza ma pur sempre a un passo dalle liaisons dangereuses. Dunque da un possibile - meta-significativo - ribaltamento dei ruoli, secondo cui il prigioniero rende succubi i propri carcerieri (certo Adele, ma anche in qualche modo il figlioletto e, di rimando, il marito).
Quando meno te lo aspetti, le Lettere a Luisa scompaginano le carte, restituendo le stazioni di questo amor fou dall’ottica difforme del Gigante (e proprio in quanto difforme attraente). In Lettere a Luisa, apprendiamo che il prigioniero sperpera il tempo (cos’altro gli rimane da fare, del resto?) catturando ragni. Li cattura uno per volta, mettendoci molta cura. Per loro ha edificato una prigione di carta, al cui interno - in un processo proiettivo ribaltato rispetto alla propria condizione - li mantiene in vita procurando loro le mosche di cui cibarsi. Tutto questo finché l’indole di Adele (in qualche modo prigioniera a sua volta), non gli si riveli traslata attraverso le note del pianoforte, e i ruoli di vittima/carnefice si frangano e ricompattino di continuo. Come i piani inclinati di eros e thanatos, d’altro canto.
Attestato com’è sullo iato che separa apollineo e dionisiaco (il rigore di cui necessita l’atto creativo contrapposto alla caotica difformità naturale) anche La donna di pietra, rimanda a un’ulteriore dualità. Una reiterata condizione attrattivo/repulsiva verso l’altro vampirico (l’uomo degli specchi in La grande Eulalia, il prigioniero in Il gigante e Lettere a Luisa) che attraversa come filo rosso i racconti di “La grande Eulalia”. Una pulsione avversa e intrinseca al contempo all’io-mutante dei personaggi vittima. Al loro io diviso, su cui grava come ennesima costante caprioliana, l’immolazione individuale (la morte del sé) come unico viatico all’amore.
La grande Eulalia e Il nocchiero
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